Venezia 74: terzo giorno al Lido. Tanta pioggia, passerelle e film in concorso tra luci e ombre
Terzo giorno per la 74 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Tanta acqua, passerelle, romanzi di formazione e un film d’artista, sui cui solleviamo qualche dubbio. E c’è anche il premio Franca Sozzani, disegnato da Jeff Koons.
Il meteo non sorride alla terza giornata di Venezia74, l’acqua che si invoca da mesi si è abbattuta tutta insieme nelle ultime ore, proprio ora, facendo da controcanto a The Shape of Water; in serata poi il maltempo si è volto in bufera, quasi in contemporanea con il red carpet di The Human Flow, annunciando di colpo la fine dell’estate. Bagnati dalla pioggia dunque i diversi e importanti i riconoscimenti assegnati, come il Leone alla carriera aRobert Redford e Jane Fonda e il premio in memoria di Franca Sozzani, scomparsa lo scorso dicembre, disegnato da Jeff Koons e assegnato a Julianne Moore, sintesi del connubio sempre più solido di moda-arte-cinema. Le pellicole in programma somigliavano invece al cielo di questo primo settembre: a parte qualche schiarita nulla di memorabile. I film visti hanno come denominatore comune la violenza in (quasi) ogni sua declinazione: in famiglia (Especes menacées di Gilles Bourdos), sociale (Lean on Pete di Andrew Haigh), globale (The Human Flow di Ai Weiwei), mettendo in certi casi a dura prova la sensibilità degli spettatori, visti i commenti che circolavano fuori dalle sale.
IL PUBBLICO DEI RED CARPET
La Mostra del Cinema non è solo offerta di titoli, ma anche presenza di pubblico, un vero e proprio popolo che si muove e opera con obiettivi e motivazioni variegate. C’è chi il cinema lo segue con attenzione (appassionati e stampa), impiegando tempo ed energie per far combaciare gli incastri progettati a penna sul programma; chi il cinema lo fa e produce (l’industry); e, infine, chi è interessato solo al red carpet agli arrivi delle celebrity in motoscafo e in generale al contorno glamour della mostra, disposto a trascorrere pure dodici ore accampato sotto le transenne del tappeto rosso, col sollievo di piccoli sgabelli, ombrelli per ripararsi da sole e pioggia, carte da gioco, panini e acqua, anelando un selfie con i divi. Ci sarebbe a pochi metri un meraviglioso maxi schermo a led che trasmette il passaggio di ogni film delegation, enfatizzando l’incedere delle star con musiche trionfali, ma la più sofisticata tecnologia nulla può rispetto al potere taumaturgico che da millenni spinge le folle a voler toccare con mano i simulacri della divinità, con l’illusione di poter essere messi a parte del loro potere. Insomma c’è chi, letteralmente, è dentro il cinema e rimane nell’oscurità della sala per tutti i dieci giorni e chi sceglie di stare all’aperto, attirato dal lato mondano e dagli effetti collaterali della visibilità.
– Mariagrazia Pontorno
UNA STORIA DI FORMAZIONE
Lean on Pete, con la regia di Andrew Haigh è una storia di formazione ambientata in un’America così profonda da trovare difficoltà ad azzeccare il decennio in cui è ambientata, se non fosse per qualche dispositivo elettronico che funge da termine post quem. Charley Thompson è un quindicenne pieno di volontà, intenzionato a far funzionare la sua vita nonostante il contesto catastrofico in cui vive. Abbandonato ancora in fasce dalla madre, cresciuto da un padre immaturo, la sua disciplina è l’ancora di salvezza in un’esistenza altrimenti scossa da continui e tragici cambiamenti. Il caso e il bisogno di guadagnare lo portano ad avvicinarsi al mondo dei cavalli e di occuparsi del purosangue Lean on Pete, che diviene presto il suo riferimento affettivo, unico essere vivente in grado di non deluderlo, testimone dei suoi crucci più intimi. A Charlie basta questo, il silenzio e la presenza di qualcuno, sia pure un animale, che per una volta non lo metta nei guai, a cui affidarsi, nomen omen. Film ben costruito, pieno di respiri visivi che contrastano con il disagio claustrofobico raggiunto in certi momenti dal protagonista. Straordinaria performance di Charlie Plummer che con questa interpretazione si candida di diritto al Premio Mastroianni.
Sala Grande,
Lean on Pete, regia di Andrew Haigh.
In concorso
I DUBBI SU AI WEIWEI
Qualcuno dica ad Ai Weiwei che non bastano 140 minuti di montato per fare un film. Né infarcire di esergo tratti da poesie e massime spirituali le scene più liriche. Né alternare interviste a immagini estetizzanti per comporre una narrazione. Un artista insomma non dovrebbe fregiarsi del titolo di regista per capriccio, trattandosi di un lavoro che richiede mestiere e tecnica oltre che grande intuizione visiva, se così si può definire inquadrare i barconi all’alba in modo che il sole riverberi sui giubbotti; oppure una tenda in controluce che ripara alla meglio i disperati del nuovo millennio; o ancora le coperte isotermiche che al più piccolo spiraglio di vento si muovono come farfalle. La sequenza di immagini, piatta per qualità fotografica ma anche per la trattazione dei contenuti, trova come unico filo conduttore la presenza dell’artista, che decide di entrare in scena oltre che stare dietro la macchina da presa. E allora ecco Ai Weiwei che cucina una salsiccia alla griglia in un campo profughi, Ai Weiwei che scambia il suo passaporto con quello di un migrante, Ai Weiwei che aiuta un bambino a scendere dal barcone ben illuminato dalle luci di scena, Ai Weiwei che si fa tagliare i capelli da un migrante. A fronte di tanto autompiacimento ritroviamo un impianto narrativo povero e privo di una idea di fondo, costituito solo da svariate interviste montate in abbinamento alla mappatura fatta dell’artista, che con disciplina performativa ha visitato tutti i porti di partenza e approdo. In presenza di temi così delicati il confine tra testimonianza e strumentalizzazione è sempre molto labile e in questo specifico caso pare mancare del tutto. Il cinema infatti non tradisce mai le vere intenzioni degli autori, il massimo della finzione è anche termometro di verità spesso sconosciute a chi le mette in scena, specie se non cosciente del motivo reale per cui sta girando un film. Uscendo dalla Sala Darsena in pochi hanno pensato che The Human Flowfosse un bel film, anzi visto il tasso di abbandono dopo i primi venti minuti e la resistenza forzata di chi è rimasto solo per dovere di cronaca, si può dire senza paura di smentite che Ai Weiwei sia riuscito a rendere noioso un film che poteva limitarsi ad essere brutto. Ci si chiede come mai un Festival di così grande tradizione abbia bisogno di sostenere operazioni di marketing di questo tipo, offrendo la selezione del concorso ufficiale e persino il red carpet delle 19.15, quello riservato agli eventi più importanti, a una star dell’arte visiva che ha deciso di improvvisarsi regista, con esiti da dimenticare, visto cheThe Human Flow non giova né al cinema, ne all’arte, né ai migranti. Ma solo ad Ai Weiwei.
Sala Darsena,
The Human Flow, regia di Ai Weiwei
In concorso
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