Dalla tela alla pellicola. La pittura sacra ne La ricotta di Pier Paolo Pasolini

In qual maniera e con quali significati l’irriverente regista inserisce nelle sequenze del suo cinico ritratto di Cinecittà dei veri e propri tableaux vivants, che riproducono la Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino il Trasporto di Cristo di Jacopo da Pontormo?

Quattro racconti per quattro autori, così si presenta, sin dalla veste grafica della locandina, Rogopag, film a episodi del 1963 il cui titolo riprende le iniziali dei registi che ne hanno diretto le singole parti: Roberto Rossellini, Jean Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti, ciascuno a modo suo, interpretano con un certo piglio ironico la condizione dell’uomo moderno. Sono ritratti caustici della coeva società, da una giovane hostess che da casta diviene smaccatamente provocante per allontanare uno stalker (Illibatezza di Rossellini), al nichilista ritratto di una coppia parigina (Il nuovo mondo di Godard), alle peripezie affrontate da una famiglia medio borghese alle prese con il consumismo di massa (Il pollo ruspante di Gregoretti). Comédie humaine destinata al grande schermo, rispetto agli altri segmenti si discosta Pasolini con La ricotta, poiché, contrariamente agli altri, si tratta di una prospettiva fortemente meta-filmica, di una riflessione cinica sul mondo di Cinecittà.
Il segmento pasoliniano è ambientato nelle campagne romane, una troupe è intenta a girare un film sulla Passione di Cristo, tra gli attori c’è Giovanni Stracci (Mario Cipriani), che interpreta uno dei due ladroni. Descrizione cruda e disincantata sulla dura vita delle comparse, l’uomo, dopo aver donato ai propri familiari il proprio cestino del pranzo, affamato, cerca con espedienti vari di ottenerne un secondo, il cui contenuto però gli viene mangiato dal cane della protagonista, sfuggito alla sua padrona. Un giornalista (Vittorio La Paglia), sul set per intervistare il regista (Orson Welles), gli dà, per aver ritrovato la bestiola, mille lire, con cui il poveretto si compra della ricotta e, sorpreso dal resto del cast mentre mangia, viene invitato per scherno a finire i resti del banchetto allestito per l’Ultima Cena. Finale amarissimo, Stracci muore d’indigestione durante la scena della crocifissione, ricevendo come orazione funebre il freddo commento del regista indifferente: “Povero Stracci, crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”.

Rosso Fiorentino, Deposizione dalla croce detta Deposizione di Volterra, 1521. Pinacoteca di Volterra

Rosso Fiorentino, Deposizione dalla croce detta Deposizione di Volterra, 1521. Pinacoteca di Volterra

LA RIPRESA DELL’ICONOGRAFIA SACRA TRA ROSSO FIORENTINO E PONTORMO

Celeberrimo esempio di citazione pittorica nel tessuto filmico, La ricotta costituisce uno dei casi più emblematici in cui un preesistente modello iconico viene ricostruito in maniera pedissequa davanti alla macchina da presa e sottoposto allo sviluppo temporale, che nella statica bidimensionalità dell’originale era del tutto inesistente. Veri e propri tableaux vivants, Pasolini inserisce nel girato la riproduzione di due celebri dipinti incentrati sul momento conclusivo della Passione di Cristo: la Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino del 1521, destinato alla Cappella della Croce di Giorno a Volterra, e il Trasporto di Cristo di Jacopo da Pontormo del 1526-1528, conservato nella chiesa Santa Felicita a Firenze. Ambedue sono posti in particolare risalto dalla scelta di inserirli a colori all’interno della pellicola, al contrario del resto dell’episodio in bianco e nero.
Sin dagli originali, si assiste a un’iconografia decisamente inconsueta: la prima fonte pittorica mostra l’episodio (non menzionato nelle Scritture) in cui il Salvatore è deposto dalla croce e, per il peso del suo corpo, sta per scivolare dalle mani dei soccorritori che lo sostengono. Percorsa da un intenso moto, allo sforzo fisico si unisce la componente patetica, il calcato dolore che piega in due i corpi della Madonna e di Giovanni Battista e che prostra a terra la Maddalena. Film nel film, nella quarta sequenza gli interpreti sono collocati sul set di un soggetto biblico, di un Vangelo secondo Matteo (che di lì a poco Pasolini girerà davvero nel 1964), secondo lo schema compositivo dell’opera cinquecentesca. Il regista esorta: “Siamo pronti! Il disco!”. Tuttavia, ossimorico rispetto all’immagine sacra, parte in sottofondo un twist. Adirato allora il suddetto replica: “No! No! Non quello! Siete peggio di quelli che giocavano a dadi ai piedi della croce, voi!”. Segue però una melodia affine, tra le risa dei presenti sulla scena (addirittura dell’attore che incarnava Gesù, ma l’inquadratura viene poi tagliata in sede di censura). La fonte pittorica statica viene così sottoposta al movimento, ma non in termini di vivificazione del dipinto in linea con il suo messaggio, quanto più in termini di rottura, per cui l’apice tragico viene del tutto interrotto da un’azione discordante, in totale attrito.

Jacopo da Pontormo, Trasporto di Cristo o Deposizione, 1526 28 ca. Chiesa di Santa Felicita, Firenze

Jacopo da Pontormo, Trasporto di Cristo o Deposizione, 1526 28 ca. Chiesa di Santa Felicita, Firenze

ANCORA UNA DEPOSIZIONE

A un simile iter viene sottoposta la Deposizione del Pontormo, riprodotta all’interno della dodicesima sequenza. Anche l’iconografia della tempera su tavola era controversa; se infatti la tradizione spesso la riferiva alla rappresentazione del momento in cui Cristo era deposto dalla croce, l’assenza di quest’ultima lasciava il dubbio che non si trattasse invece di una Pietà, in cui la disposizione assai articolata delle figure, qui al contrario del Rosso Fiorentino, sembra privare quasi i corpi di peso. D’altro canto, nella sua traslazione su pellicola, la struttura e la colorazione innaturale dell’originale sono altresì riprese nel medesimo processo di “movimentazione dello sguardo” in chiave discordante. Inoltre, ancora una volta la scena si apre con l’inserimento di un sottofondo sonoro inadeguato, che viene però prontamente sostituito da un più degno accompagnamento. Poi, si assiste in un susseguirsi in rapido montaggio alternato, a una visione d’insieme e di primi piani sui diversi personaggi che prendono parte alla scena, sempre accompagnati da una voce fuoricampo che fornisce indicazioni. Richiamando direttamente la sfera cinematografica, viene chiamato il “Ciak”, ma poco dopo viene fatto cadere a terra il Redentore, tra le risa degli astanti e le grida del regista che li appella “blasfemi!”. In entrambe le sequenze è ugualmente spezzato il lineare sviluppo della diegesi con l’irriverenza del sottofondo musicale e dalle reazioni di coloro che recitano sulla scena.

LA DESACRALIZZAZIONE DEL SACRO E LA SACRALIZZAZIONE DEL PROFANO

Il riferimento diretto all’arte sacra s’inserisce dunque in un complesso e ambiguo iter di significazione. La riproposizione di un episodio evangelico, ricreato davanti alla camera da presa seguendo in maniera pedissequa le due suddette pale d’altare, ha anzitutto la funzione di critica di un genere cinematografico, quello di argomento biblico, che riutilizzava l’iconografia sacra poiché amata dal grande pubblico e fonte di facili guadagni. A fornire tale chiave di lettura era stato il regista stesso accusato per La ricotta di “Vilipendio contro la religione di stato” e chiamato in giudizio nel 1962 dal Tribunale di Roma (seppur avesse ottenuto il visto della censura). Tuttavia, come il giovane magistrato incaricato Giuseppe di Gennaro contestò con una certa sagacia critica, la pellicola era disseminata di duplici significati, arrivando a parlare di criptocomunicazione. Erano contestate in primis le continue interferenze mimiche, verbali e sonore nelle sequenze incentrate sulla Deposizione, ascritte dall’autore alla trivialità di cast e troupe, mentre secondo l’accusa erano mirate alla desacralizzazione della Passione di Gesù e non solo. In un percorso duplice e di segno opposto, alla figura del Salvatore, in siffatta maniera volgarizzata, era sostituita quella dello sventurato Stracci (che però interpretava uno dei ladroni), allo stesso modo morto in croce per un’abboffata, che veniva così sacralizzata. Di diversa opinione era altresì il Centro Cattolico Cinematografico che proprio nella condivisione di un medesimo destino vedeva un esempio di “cristiana redenzione” del protagonista e perciò non aveva ritenuto necessario escludere la visione del film per i credenti (che sconsigliava solamente). Si tratta invero di diverse inversioni di rotta che portano a una stratificazione tutt’altro che immediata di significato: a un primo livello si constata il rimando al contenuto emotivo e devozionale dei dipinti; poi c’è la loro neutralizzazione, la banalizzazione del materiale originario dovuta a diverse variabili di disturbo che interrompono la riproduzione delle icone nei fotogrammi; infine c’è l’elevazione dell’elemento umano, del diseredato, che è assimilato al divino. Non lineare quindi nel messaggio come altri film che si rifanno alla tradizione biblica, ne La ricotta Pasolini sembra aprire una sua personalissima riflessione sul sacro, che ha le proprie radici negli umili, soggetto chiave per l’autore e al centro di pellicole come Accattone (1961) e libri come Ragazzi di vita (1955), ma che al contempo anticipa nel contenuto religioso opere come Il Vangelo secondo Matteo, che porteranno alla sua rivalutazione perfino presso la critica cattolica.

Sabrina Crivelli

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Sabrina Crivelli

Sabrina Crivelli

Laureata in Economia e Gestione Aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha conseguito la laurea specialistica in Economia e Gestione dei Beni Culturali nel medesimo ateneo. Ha poi lavorato a Londra come analista finanziaria e frequentato nel medesimo periodo…

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