Cinema. Denis Villeneuve e il massacro di Montréal
La rubrica “Lost in Projection” accende i riflettori su uno dei film meno noti del regista di “Arrival” e “Blade Runner 2049”. Una cronaca del massacro avvenuto all'interno dell’École Polytechnique, a Montréal, nel 1989, causando la morte di quattordici studentesse.
Montréal, 6 dicembre 1989. Convinto che il femminismo gli abbia rovinato la vita e che rappresenti un male per il mondo intero, lo studente Marc Lépin, armato fino ai denti, entra all’interno dell’École Polytechnique, ateneo di ingegneria tra i più rinomati al mondo, e inizia a fare fuoco sulle studentesse. Durante la mattanza, Valérie, Stéphanie e Jean-François, amici e compagni di studi, vengono separati, subendo psicologicamente l’assalto in modalità differenti. La comune e tragica esperienza segnerà per sempre il loro destino.
Polytechnique è uno dei lavori meno noti di Denis Villeneuve, regista dei più recenti e famosi Arrival e Blade Runner 2049, e tuttavia è anche un’opera di grande valore umano e artistico.
Girato in bianco e nero con camere steady, questo sobrio e poetico lungometraggio del regista canadese racconta con distacco e rispettoso riguardo il massacro dell’École Polytechnique di Montréal, durante il quale, nel dicembre del 1989, furono uccise quattordici studentesse.
Con meticolosa e paziente precisione, Villeneuve ricostruisce il fatto di cronaca senza dare alcuno spazio alla retorica e senza cercare di spiegarne le cause, ma presentandolo per quello che è: un’esecuzione a sfondo misogino. Sin dalle prime inquadrature (dove non a caso compare la riproduzione di Guernica di Picasso), Polytechnique travolge e disorienta, mescola i piani temporali e i quattro punti di vista dei protagonisti come in un caleidoscopio, riuscendo tuttavia a restituire uno sguardo coeso ed equilibrato sull’insieme dei fatti. Le vere motivazioni del massacro sono brevemente enunciate dalla voce off-screen del killer, mentre i movimenti di comparse e protagonisti vengono seguiti solo in parte dalla telecamera che, a tratti, si capovolge, ruota e si innalza, astraendo l’immagine e sottolineando la sconcertata impotenza dello sguardo narrante.
Ad accompagnare l’atmosfera sospesa e glaciale, alcune dissonanti note di Benoît Charest si alternano alle detonazioni e all’angoscioso silenzio che ne segue. “Se avrò un figlio, gli insegnerò ad amare, se avrò una figlia, le insegnerò che il mondo le appartiene”. Così scrive Valérie alla madre del carnefice alcuni anni dopo i fatti, nell’ultima sequenza di questo realistico e composto ritratto di follia umana.
‒ Giulia Pezzoli
Canada, 2009 | drammatico | 77’ | regia: Denis Villeneuve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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