Il senso delle macerie sul grande schermo

Il cinema, dal dopoguerra in avanti, usa le macerie per raccontare la storia di un’Italia protagonista di veloci cambiamenti. Dal boom economico all’amarezza di fine Anni Settanta.

Le macerie, le rovine, i frantumi sono tra gli elementi costitutivi della Trilogia della Guerra di Roberto Rossellini: ma se in Roma città aperta (1945) e in Paisà (1946) i mattoni e i muri sbreccati costellavano le visioni delle città italiane attraversate dal conflitto, il paesaggio urbano di Germania Anno Zero (1948) è totalmente differente. Berlino non è punteggiata qui e lì da collassi e distruzioni: è la distruzione. La catastrofe e l’annullamento totale – il grado zero divenuto poi proverbiale – sono detti prima di tutto dalle strade post-apocalittiche che compongono questo film, percorse e attraversate nei loro contorni ormai indefiniti dal giovanissimo protagonista Edmund.
È un cinema tutto sul movimento, sul camminare, sul vagare e vagabondare per queste inquadrature di finestre che guardano sul nulla – di tetti mancanti, di angoli smozzicati, di pareti bucherellate – di edifici svuotati, di piante che crescono impossibilmente sui marciapiedi e nel bel mezzo della via – mentre il bambino biondo in calzoncini corti giocherella e saltella. Impalcature che non reggono più niente, cumuli di scorie e rifiuti, pietre scalcinate, buchi che si aprono all’improvviso sul vuoto. Il film, che conclude appunto con coerenza e rigore da allora ineguagliati una riflessione profonda su un’intera epoca, è tutto costruito sul riflesso tra questo panorama surreale e l’agghiacciante deserto morale in cui Edmund cresce, vive, muore. Rossellini ci dice, con la macchina da presa che potentemente registra il collasso delle strutture fisiche, che a venir meno in queste condizioni è l’umano – e lo fa abbracciando persino il punto di vista dello sconfitto, del nemico.

DISCARICHE E RIFIUTI

Passano vent’anni ed ecco, in Dramma della gelosia – tutti i particolari in cronaca (Ettore Scola 1970), tutte le prime delusioni del progresso incriccato e del boom che si avvita già condensate nella scena iniziale: di notte, al termine della Festa dell’Unità, durante un ultimo giro di giostra Adelaide nota il muratore Oreste, semisepolto dalla stanchezza in un mucchio di detriti, volantini, pagine strappate, manichini. Quello degli scarti e dei rifiuti è il trait d’union di tutto il film (il luogo stesso del delitto, il “dramma” del titolo, sono non a caso i Mercati Generali): i due innamorati si incontreranno in paesaggi deturpati e discariche, come durante un pic-nic surreale o come nella famosa scena della spiaggia, in cui Oreste-Mastroianni si rivolge in camera al giudice per un appello indignato che suona attualissimo: “La domenica andavamo al mare su queste nostre spiagge italiane che tutto il mondo ci invidia ma che sono una grande zozzeria: catrame, gatti morti, cinti erniari… guanti de Parigi!… Signor Presidente, ma lei lo sa che a Roma due esseri che si amano nun sanno dove mettere piede, perché è tutto una montagna de monnezza! Sette colli, sette colli de monnezza! È la città più zozza d’Europa”.

CONFUSIONE E NUOVI INIZI

Alla fine degli Anni Settanta, la conclusione di Prova d’orchestra (Federico Fellini, 1979) è un apologo sul proprio tempo: giunta al parossismo la confusione, la cacofonia, l’ecolalia, la gigantesca palla d’acciaio è la realtà che irrompe nel campo chiuso della sala di prova trasformata in disastrosa assemblea; la palla demolisce tutto, riduce ogni cosa in polvere e lascia un ambiente distrutto, smembrato. Porta a termine la violenza, e al tempo stesso fa strada al possibile ordine del tempo nuovo, che consiste nel ripartire dalle basi, dai fondamentali: “Ognuno deve prestare attenzione al suo strumento… Le note salvano, la musica salva. Aggrappatevi alle note, seguite le note”, dice il direttore ai musicisti smarriti.
Infine, The Wall (1982) dei Pink Floyd e di Alan Parker è divenuto uno dei simboli più forti dell’alienazione contemporanea. Questo muro altissimo, impenetrabile, che si curva per diventare torre e cono e imprigionare il pupazzo metafisico Pink, il muro che segna la distanza insormontabile tra Sé e gli Altri, tra la propria identità e il mondo esterno, il muro che non si può attraversare né scalfire ma solo capire esplode, sì, in mille pezzi (“Tear down the wall!”, invocano il Giudice Verme e il pubblico…) liberando il protagonista dalla sua costrizione-ossessione e restituendolo pienamente al mondo. Ma non possiamo fare a meno di percepire il sarcasmo e l’amarezza di Roger Waters che canta mentre i bambini giocano con le macerie: “And when they’ve given you their all, some stagger and fall, after all it’s not easy banging your heart against some mad bugger’s wall”.

Christian Caliandro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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