Isle of Dogs. Il film di animazione targato Wes Anderson
Premiato all’ultima Berlinale, il film di animazione diretto da Wes Anderson è una fiaba rivoluzionaria, radicata nelle dinamiche del presente.
Qualche settimana fa ha inaugurato la 68esima Berlinale, dov’è stato premiato con l’Orso d’argento per la miglior regia; la prossima primavera – data di uscita prevista: 17 maggio – raggiungerà le sale italiane. È Isle of Dogs (L’isola dei cani), un film al cento per cento Wes Anderson, ma con qualcosa in più. Stavolta, infatti, il regista più dandy di Hollywood non si è fermato al puro stile, alle nuance color caramella, ai carrelli verticali e laterali che scivolano su traiettorie rigorosamente cartesiane, alle cartoline, ai piani frontali con didascalia. Forse per via dell’America e del mondo che cambiano (in peggio), il regista texano ha sentito l’urgenza di schierarsi a favore dei soggetti più deboli contro i soprusi, le emarginazioni, le ingiustizie che si estendono a macchia d’olio tra gli Stati, da Oriente a Occidente, dal vecchio al nuovo continente. Senza rinunciare alla leggerezza che gli è propria, allora, Anderson scopre una dimensione più impegnata del solito.
LA TRAMA
È la seconda volta – dal 2009, dopo Fantastic Mr. Fox – che Anderson si cimenta nell’animazione in stop motion. Niente volpi, in questo caso, ma cani parlanti, che vivono in armonia con gli uomini in una società giapponese del prossimo futuro (il film è ambientato nel 2037) fino al giorno in cui il sindaco dell’immaginaria Megasaki City ne decreta l’espulsione, esiliandoli e abbandonandoli su un’isola-discarica, con la scusa di una febbre canina che potrebbe contagiare anche gli umani. Il 12enne Atari Kobayashi non ci sta. E parte, a bordo di un piccolo aereo, sulle tracce del suo cane da guardia Spots. Su Trash Island incontrerà altri fedeli amici ingiustamente condannati a una vita da reietti: Boss, Rex, Chef, Duke, King, che non solo lo aiuteranno nella ricerca della mascotte, ma lo seguiranno nella rivolta contro il primo cittadino, segretamente intenzionato a sopprimere l’intera colonia canina.
MALE VS BENE
Alla semplicità di una favola costruita attorno ai temi cardine dell’amicizia e della lealtà, Anderson aggiunge nuovi elementi di natura politica. Descrive il Male: la persecuzione, la deportazione, la minaccia dello sterminio. Gli oppone il Bene: la solidarietà, l’umanità, la difesa degli ideali a tutti i costi. E anche sotto l’aspetto visivo, qualcosa è cambiato. L’impronta andersoniana è ancora riconoscibile, l’immagine però si è fatta più densa, ricca di riferimenti iconografici. Il film deve infatti molto alla tradizione artistica nipponica: dal teatro kabuki ai paesaggi di Hokusai, e naturalmente al cinema di Miyazaki, Ozu e Kurosawa, maestri ossequiosamente omaggiati, mai plagiati. Molti riferimenti rimandano anche alla storia del Paese: dalle proteste studentesche alle derive più autoritarie e violente. Quei riferimenti, Anderson li prende in prestito per costruire un immaginario riconoscibile, ma mira ad altro, a portare il racconto su un piano universale, mescolando la concretezza del reale alla libertà – anarchica e sovversiva – della fantasia.
Scritta a sei mani dallo stesso regista assieme a Jason Schwartzman e Roman Coppola, L’isola dei cani è una fiaba avventurosa e rivoluzionaria che sa commuovere e divertire. Cento per cento Anderson, con qualcosa in più.
‒ Beatrice Fiorentino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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