Cinema, Italia, realtà
Il cinema italiano degli ultimi vent’anni dimostra una rinnovata attenzione al reale, che richiama mostri sacri del calibro di Pasolini, Damiani e Rossellini.
Esiste nel cinema italiano degli ultimi vent’anni – accanto alle commediole inutili, ai noiosi drammi borghesi e alle disincantate riscoperte, fuori tempo massimo, di una dolce vita a cui è sottratta programmaticamente ogni amarezza – un filone particolarmente resistente di cinema della realtà: un cinema che usa il realismo, declinato in accezioni nuove e costantemente aggiornate, come chiave privilegiata per indagare il tessuto immaginario e l’identità collettiva nel suo mutamento. Il filone affonda naturalmente le sue radici nell’opera di Rossellini e nelle sue varie filiazioni poetiche (Rosi, Pasolini, Damiani): c’è dunque un neorealismo continuo, sotterraneo, sommerso e sommesso che scorre nelle vene italiane, in alternativa al conformismo stilistico e tematico.
I FILM
Il capostipite può essere riconosciuto ne LaCapaGira (1999) di Alessandro Piva, che inaugurò la rappresentazione culturale e persino visiva di una Bari fino a quel momento del tutto sconosciuta, e di un Sud finalmente dislocato rispetto agli stereotipi turistici e sociali. Riemerge tra le pieghe e negli anfratti di questo ventennio, ogni tanto, un’Italia arcaica, al tempo stesso pre-moderna e post-storica, una prefigurazione di ciò che accadrà.
Gomorra (2008) di Matteo Garrone, trasposizione cinematografica del romanzo di Roberto Saviano, è stato senza dubbio un passaggio importante soprattutto perché rielabora un’intera estetica Anni Sessanta (Antonioni in particolare) e la adatta al secolo nuovo, e perché apre stilisticamente a quello che è il vero capolavoro dell’ultimo quindicennio: Reality (2012). Un film totalmente sospeso, che delinea i criteri di un realismo magico nostrano, che scarta continuamente tra il “mondo” e la sua “finzione”; un film capace di riattivare in chiave contemporanea i criteri che regolano il racconto e il teatro barocco (non è un caso, forse, che il film successivo di Garrone sia dedicato proprio a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile).
Opere dunque come Gomorra, Henry (2010) di Piva, Reality, ACAB (2012) di Stefano Sollima e poi soprattutto il trittico formato da Lo chiamavano Jeeg Robot (2016) di Gabriele Mainetti, Indivisibili (2016) di Edoardo De Angelis e A Ciambra (2017) di Jonas Carpignano agganciano il senso profondo dell’Italia di oggi (che non è quello apparente, come sempre), illuminando le strutture dell’immaginario sociale e proiettandole al di fuori.
Destrutturando e mescolando i generi in chiave non postmoderna, creando in modi diversissimi un proprio spazio intimo, autonomo, questi film scelgono coraggiosamente – superando ostacoli produttivi e distributivi – di stare da un’altra parte, di continuare a guardare ossessivamente i frammenti ricomponendoli poi in una sorta di “realtà-acquario” (Longhi) e non lo spettacolo. Di “sporgersi”.
FAVOLE MORALI
Così, Indivisibili e A Ciambra sono due meravigliosi racconti contemporanei di formazione: le gemelle siamesi Daisy e Viola e il giovanissimo Pio cercano faticosamente di costruire la propria identità in contesti difficili e magici, caparbiamente alieni a qualunque forma di normalizzazione e standardizzazione (Castel Volturno e il golfo di Gaeta da una parte, la comunità rom di Gioia Tauro dall’altra). Luoghi periferici, micro-comunità impenetrabili si aprono a mostrare un’umanità irriducibile, fatta di relazioni preziose e di legami che si sviluppano quotidianamente. Pervade queste opere un’atmosfera malinconicamente e insolitamente apocalittica, il senso delle macerie e delle rovine che costellano una civiltà perduta (l’Italia dei decenni scorsi, del boom e di una prosperità tradita, o mai pienamente raggiunta), di una fine che non smette ancora di finire, mentre il nuovo inizio avanza, prende corpo, si manifesta.
Comunità religiose, case di immigrati e di poveri, circuiti chiusi e sacche di resistenza permettono al tempo di fiorire, di trasformarsi, di evolvere. E questo cinema permette di catturare in presa diretta – come in altri momenti storici del nostro Paese – questa realtà spesso invisibile, nonostante sia costantemente sotto i nostri occhi.
Sono favole morali, solo apparentemente oscure, che rendono conto di una transizione epocale: e – quel che più importa – sono favole costruite attraverso un processo collaborativo e collettivo, un lavoro di ricerca che ha impegnato, e sta ancora impegnando, registi scrittori attori cantanti artisti visivi nell’elaborazione di un linguaggio, di un’estetica, di un codice. E persino di un nuovo modo di fruire e recepire questo linguaggio.
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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