Mario Martone 1977 2018. Al Museo Madre la mostra che racconta il regista napoletano. L’intervista
Ha appena inaugurato la mostra “1977 2018 Mario Martone Museo Madre” al Museo Madre di Napoli. Abbiamo incontrato il regista che ci ha raccontato la mostra, il film-flusso appositamente pensato per il museo e prodotto dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, la sua amicizia con Lucio Amelio e i ricordi di 41 anni di attività.
La tua mostra si intitola “1977 2018. Mario Martone Museo Madre” e, se non sbaglio, è la prima in un museo di arte contemporanea. Con Gianluca Riccio, curatore della mostra, in che modo avete pensato e costruito questo progetto? Come ti racconti all’interno di una struttura museale, diversa da un teatro o un cinema? Come ti confronti con essa?
Beh, sì, naturalmente è la mia prima mostra in un museo d’arte contemporanea, ma è pur vero che il mio primo spettacolo con il gruppo Falso movimento è stato nella galleria di Lucio Amelio. Chiaramente per me questo ha un valore molto forte, perché poi questo museo deriva da quello che Lucio Amelio ha lasciato, ha seminato, in questa città, a Napoli. E quindi l’arte è sempre stata presente per me, anche perché mi sono formato in anni – alla fine dei Settanta – in cui le barriere tra le diverse espressioni artistiche non c’erano. Noi eravamo insieme giovanissimi registi, pittori, danzatori, musicisti. Mimmo Paladino faceva la sua prima mostra da Lucio Amelio mentre io ero da quelle parti…Ho poi chiamato Mimmo a realizzare la messa in scena dell’”Edipo Re” e dell’“Edipo a Colono”: i due spettacoli sono stati anche due grandi installazioni d’arte. Quando Andrea Viliani mi ha proposto di fare una mostra, la cosa che ho subito pensato con il curatore, Gianluca Riccio, è che non doveva essere una mostra di tipo storico, con fotografie, manifesti…
Non volevi una mostra classica, insomma…
Mi interessava lavorare sul presente, lavorare su questi materiali non storicizzati e guardarli all’indietro, ma guardarli invece nella loro possibilità di rivivere in un tempo circolare, e da qui anche il titolo della mostra che è “1977 2018” ma con tutte le cifre rovesciate e l’otto disposto in orizzontale come il segno dell’infinito. Immediatamente viene scardinando il senso cronologico verticale del tempo. Poi naturalmente mi interessava fare una videoinstallazione, cosa che questa mostra è. Perché di fatto il centro della mostra è la sala dove ci sono i quattro schermi, con le sedie girevoli che riprende lo spettacolo “Ritorno ad Alphaville”. Io ho sempre lavorato sullo spazio. Nei miei lavori in teatro ma anche all’opera lirica, molto spesso abolisco la quarta parete, per me lo spazio è lo spazio: si può stare in palcoscenico si può stare in platea, si può stare nei palchi.
Come hai scelto i materiali?
Ovviamente mancano tantissime cose, anche belle, che però non sono affiorate perché è stato un po’ come un monologo interiore, un flusso di coscienza. A un certo punto si montava un pezzo, guardandolo magari mi veniva in mente che ce n’era un altro che poteva dialogare con il precedente… e così via. Non c’è stato uno schema di base precostituito, ma è montato così, su questa onda istintiva.
Quindi il curatore non ha dato uno schema da seguire?
No. Gianluca ha visto tutti i materiali e ha spinto molto sulle associazioni tra uno schermo e l’altro. Ci sono due montaggi, come se ci fosse un montaggio al cubo: c’è, da una parte, il montaggio del film in sé, che come ti dicevo prima è già completamente “stream of consciousness”, e, dall’altra parte, c’è quello che accade tra uno schermo e l’altro. A volte su indicazione del curatore siamo andati a cercare determinati materiali in maniera puntuale, ma molto è affidato all’aleatorietà, aleatorietà che mi riconduce John Cage, a Fluxus e al mio amore per questa esperienze alla fine degli anni Settanta. Nel mio primo film “Morte di un matematico napoletano” ho usato le musiche di John Cage. Per me era un vero e proprio omaggio.
Raccontaci del tuo rapporto con Lucio Amelio…
Lucio amava recitare, ha partecipato anche a un film di Lina Wertmüller… Alle nuove generazioni posso consigliare di vedere il documentario “Lucio Amelio Terrae Motus”, che ho realizzato su di lui e con lui. Era molto malato quando abbiamo girato il film. Abbiamo realizzato una lunga intervista dove ci sono anche interventi di alcuni artisti, come Mimmo Paladino, Ernesto Tatafiore, Nino Longobardi e tutta una parte finale dedicata alla collezione Terrae Motus. Ma principalmente il film è costruito intorno all’intervista con Lucio, molto consapevole che in qualche modo si sarebbe trattato di una sorta di testamento spirituale. Si racconta con grande generosità… Quello con Lucio è stato un grande rapporto. Dopo aver girato il documentario mi regalò il multiplo di “Capri Batterie” di Joseph Beuys, con una dedica meravigliosa. Ogni volta che la vedo mi commuove. Mi scrisse: “A Mario batteria vivente, Joseph e Lucio”. Beuys era morto già da qualche anno, e anche per questo è una dedica che mi è molto cara.
Hai altri ricordi?
Lucio aveva un braccio destro, un ragazzo americano, Tomas Arana, attore di formazione che aveva studiato al conservatorio di San Francisco. Tomas era un giovane straordinario, vitalissimo, intelligentissimo. A un certo punto gli chiesi di recitare, dicendogli che non si sarebbe trattato di farlo in senso tradizionale, con testi da recitare, ma performativo. Lui si incuriosì e così, in un certo senso, ho come strappato Tomas a Lucio. Tomas è stato la colonna portante di “Falso movimento” per tutto il periodo in cui quell’esperienza è andata avanti; non avremmo avuto la vita internazionale che abbiamo avuto senza di lui, visto che da Lucio aveva ereditato la grande capacità di relazione col mondo. Noi eravamo dei ragazzetti napoletani borghesi e Tomas ci trascinava in modo molto forte e deciso verso una dimensione più aperta.
E la galleria com’era?
La galleria di Lucio Amelio era un vero e proprio centro propulsore in città; certo non era la sola, perché erano anni molto interessanti in cui anche altri galleristi – Lia Rumma, Pasquale Trisorio, Peppe Morra – lavoravano intensamente. Tutto era molto vivo, però andare da Lucio significava essere a Napoli e al tempo stesso vedere le opere di Rauschenberg, di Twombly… Si andava in galleria e ti si apriva un mondo. Ricordo una performance straordinaria di Vito Acconci. Ancora mi vengono i brividi a pensarci. E poi a villa Pignatelli Lucio diede vita ad alcune grandi mostre che furono molto importanti: Pistoletto negli anni settanta, Calzolari… Lucio era un personaggio anche molto difficile, però poteva essere estremamente generoso e, soprattutto, molto curioso. Noi frequentavamo la galleria e ricordo un giorno in cui Lucio aveva in programma di andare con Beuys a visitare l’antro della Sibilla cumana – credo fosse la prima volta che ci andava – e disse a me e Toni Servillo“beh perché non venite pure voi?”. Per me è un ricordo leggendario: seguire e vedere Beuys, stare con lui in questo luogo magico. Avevo sedici anni.
Come nasce Falso Movimento?
Poi ho cominciato a realizzare i miei primi lavori, cambiando vari nomi ai gruppi che andavo formando: il primo si chiamava “Battello Ebbro”, dalla poesia di Rimbaud, poi “I nobili di Rosa”, che prendeva il nome da un’antica moneta alchemica, e a un certo punto immaginai “Falso movimento” proprio nell’anno in cui Lucio aveva deciso di aprire la galleria e ospitare la “Rassegna della creatività del mezzogiorno”. Si trattava di un omaggio alla propulsione creativa di Napoli. Lucio gli artisti li portava nelle bettole dei tribunali. Li immergeva immediatamente nel corpo di Napoli.
Napoli diventava po’ come New York per loro…
Lo era assolutamente negli anni Ottanta. C’era anche un libro intitolato “Napoli – New York”, dove si ragionava sul 42° parallelo e su queste due città a confronto l’una con l’altra. Io realizzai il primo lavoro di “Falso movimento” dal titolo “Segni di vita” all’interno della rassegna, e anche in quel caso c’era una performance nella galleria e la colonna sonora su cui si reggeva tutta l’azione era trasmessa da una radio libera. Non pensare mai il lavoro chiuso in sé: questo piaceva a Lucio. Mi portò a Stoccarda con un lavoro che si chiamava “Dallas 1983” e poi dopo andammo con un altro lavoro ad Art 10, a Basilea.
Che anno era?
Poteva essere nel 1979. Abbiamo parlato tanto di Lucio Amelio e di Napoli, però è anche bene dire che io ho sviluppato abbastanza presto un rapporto con Roma. Fin da ragazzo andavo a Roma per vedere gli spettacoli di avanguardia, di compagnie come il Carozzone, La rinascenza, oppure per assistere alle messe in scena di Carmelo Bene, Leo De Bernardinis, e così via. E lì c’era un altro gallerista che ha avuto senso per me che è Fabio Sargentini.
Anche lui molto legato al teatro…
Come no! Quando ho fatto il teatro India a Roma, Fabio ha fatto delle cose bellissime, ha fatto le performance con i quattro pianoforti, con quattro grandi pianisti. Ricordo che portò Simone Forti, grande ballerina e coreografa, alla chiesa Nuova. Un gallerista che portava una danzatrice contemporanea in una tra le chiese storiche di Roma, ecco… allora è chiaro che c’era una forte apertura.
La mostra al Madre dà la possibilità di ripercorre quella che è la tua storia anche a chi magari non conosce i tuoi lavori meno recenti…
Sì, c’è anche la ripresa di “Tango Glaciale” del 1982, che da anni mi chiedevano e che avevo sempre rifiutato di fare. Poi, proprio perché ho da subito pensato alla mostra come alla costruzione di un rapporto vivo tra passato e presente, mi sono detto “facciamo Tango Glaciale reloaded!”. È chiaro che non potrà mai più essere lo spettacolo andato in scena per la prima volta a Napoli nei primi anni ottanta, ma può essere un nuovo spettacolo che, in quanto tale, il primo luglio debutterà in forma ufficiale al Ravenna Festival e poi sarà a Roma Europa, in ottobre.
A settembre esce il tuo nuovo film…
Al momento il titolo – ma forse cambierà – è “Capri Batterie”, che deriva da un’opera di Joseph Beuys, un oggetto magico da vari punti di vista. Il progetto è nato quando sono andato a Capri in inverno. Ero lì e mi sono imbattuto per la prima volta nei quadri di Karl Wilhelm Diefenbach e soprattutto nel racconto della storia di Diefenbach e poiché i film “si accendono” come fossero delle luci – una luce che improvvisamente si accende e ti attrae – ho sentito immediatamente l’accensione di una luce che si è collegata a “Capri Batterie”, come una specie di corto circuito. Non è un film storico, prende spunto da cose reali, la comune di Diefenbach, a inizi del Novecento, anche se il film è spostato nel 1914 quando Diefenbach era già morto. Già questo ti dice che è tutto inventato, però naturalmente c’è l’esperienza nella comunità, collegata a Monte Verità, cose che ho scoperto un po’ alla volta come il fatto che la persona che aveva lavorato su Monte Verità in tutti gli ultimi anni con una grande cura è stato Harald Szeemann.
Un film che parla d’arte…
Il fatto che io avessi immediatamente sentito il richiamo di Beuys e di “Capri Battery”, questa intuizione iniziale, si saldava a Diefenbach che mi portava a Monte Verità che mi portava a Szeemann che mi riporta a Beuys e all’arte concettuale, all’arte povera e così via. Nel film c’è una specie di lavoro sul tempo, come già nel “Giovane Favoloso” dove il tempo storico, passato, è messo in rapporto con il presente. Ma qui molto di più, perché in qualche modo è come un tempo che attraversa il Novecento, e quindi chiaramente c’è in qualche modo Diefenbach da un lato e c’è Beuys dall’altro e c’è la danza, che non aveva a che fare con Diefenbach ma con Monte Verità, perché è qui che nasce la danza moderna con Rudolf von Laban. Tutto comunque in rapporto a un’idea di politica dell’arte, con una riflessione sulla natura, sull’energia e su una alternativa possibile.
–Arianna Rosica
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