Mostra del Cinema di Venezia, ultimo giorno. Intervista con l’artista attivista Anne de Carbuccia
Incontriamo Anne de Carbuccia per parlare di One Ocean, corto di 11 minuti dedicato alla tutela degli oceani, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 75.
Anne de Carbuccia è una artista-attivista che da cinque anni porta avanti One Planet, One Future, progetto che pone l’attenzione sulla crisi ambientale e il cambiamento climatico, promuovendo stili di vita più sostenibili per il nostro futuro. I suoi Time Shrines (sacrari del tempo), sono installazioni temporanee create in luoghi simbolici e fotografati rigorosamente con la luce naturale. Anne ha sviluppato sin dall’infanzia un profondo interesse per la natura, -suo padre era amico di celebri esploratori come Jacques Cousteau e Alain Bombard- che l’ha portata a laurearsi in Antropologia alla Columbia University e fare del viaggio suo campo di ricerca privilegiato, come la spedizione in Antartide, luogo in cui ha deciso di dare inizio al suo progetto di arte-scienza-ambiente. Anne parla correntemente diverse lingue, tra cui un perfetto italiano. Indossa una maglietta blu con la scritta One Ocean, così come tutti i membri del suo staff. Con tenacia e passione è riuscita in pochi anni a strutturare la sua idea, creando persino una Fondazione che ne porta il nome.
Come nasce il tuo progetto?
È nato cinque anni fa, quando ho deciso che avevo la necessità di documentare il nostro pianeta. In particolare ciò che abbiamo, che stiamo per perdere e che abbiamo già perso. Ho One Planet, One Future documenta le tematiche che saranno sfide del mondo di domani. Il soggetto è l’acqua: dai ghiacciai che si sciolgono, ai mari inquinati, l’oro blu è il mio campo di ricerca.
One Ocean, il corto che presenti qui a Venezia, è una sorta di showreel poetico della tua ricerca e ha le potenzialità del lungometraggio. È una cosa a cui stai pensando?
One Ocean è un capitolo di One Planet, One Future. Sto già lavorando all’idea di un lungometraggio, ma non essendo una filmaker aveva senso partire da un corto, e prendere le misure con un linguaggio per me nuovo.
La tua produzione è legata essenzialmente alla fotografia. Come ti sei approcciata a un mezzo, il video, che sino ad ora non avevi frequentato?
È una urgenza che deriva dalla possibilità di diffondere il più possibile un messaggio. Ti spiego meglio. Al momento è in corso una mia mostra nella Sala delle Carceri di Castel dell’Ovo a Napoli, sino ad ora si sono registrate circa 70.000 visite, che è già tantissimo. Ma col video e il cinema la diffusione può essere ancora maggiore e più capillare: il mio è un progetto educativo, che circola pure nelle scuole, che vuole sensibilizzare e produrre consapevolezza. Per questo i numeri sono importanti.
Tu hai un background che ti ha portato in maniera naturale ad affrontare certe tematiche. Parlare di ambiente però sembra essere diventata anche una moda tra gli artisti. Non credi ci sia questo rischio?
Più gente ne parla meglio è. Il problema è l’opportunismo, fa perdere tempo: è uno dei motivi per cui ho deciso di non accettare sponsor e produrre le mostre da sola, attraverso la vendita dei miei lavori.
Hai creato una fondazione che porta il nome del progetto. Perché?
Se si vuole portare avanti con coerenza un certo discorso, che si concentra intorno a un messaggio, credo che una Fondazione sia inevitabile, è anche una questione di trasparenza. Le vendite delle opere vanno alla Fondazione, che così può finanziare il progetto educativo avviato a Milano e a New York, e anche la produzione e l’allestimento delle mostre.
Tornando a One Ocean, le musiche sono di Ludovico Einaudi. Hai avuto modo di incontrarlo?
Non ancora, avremmo dovuto vederci già un paio di volte, ma tra i miei viaggi e lui che è sempre in giro non è stato possibile, però ci sarà modo.
Come mai hai pensato a lui?
Einaudi mi è subito venuto in mente, sia perché è un Maestro, ma anche perché è un grande attivista, si dedica seriamente al pianeta. Gli ho mandato in visione il progetto, lui ha molto apprezzato il tipo di lavoro e ha deciso di inviare una musica già edita, perché non c’erano i tempi tecnici per lavorare a qualcosa di nuovo.
Essenzialmente tu fotografi installazioni estemporanee, a cui dai il nome di TimeShrines che componi di volta in volta con materiali diversi che trovi sul posto, ad eccezione di una piccola clessidra e un teschio, costanti in ogni foto. Come mai usi i simboli della Vanitas in maniera così descrittiva?
Io sono cresciuta con una formazione classica, mi piace chiamare le mie immagini “nature vive”, quindi questo è un primo motivo. La Vanitas non è un simbolo di morte ma un memento mori, quindi è una possibilità di scelta, una esortazione a prendere le decisione più giuste e responsabili per il nostro pianeta e la nostra vita.
L’arte può essere un motore di cambiamento?
La bellezza salverà il mondo, rubo a Dostoevskij una frase in cui credo profondamente.
–Mariagrazia Pontorno
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