La sesta stagione di House of Cards dopo lo scandalo #MeToo
Dopo lo scandalo molestie che ha travolto Kevin Spacey, è sbarcata su Sky Atlantic, lo scorso 2 novembre, la sesta ed ultima stagione di House of Cards. Senza il due volte premio Oscar, tagliato fuori dalla produzione dal ruolo di Frank Underwood, è Robin Wright, nei panni di Claire, a guidare i giochi di potere alla Casa Bianca
“Ora è il mio turno”. Claire Underwood (Robin Wright) ci aveva avvisati. Nell’ultima scena della quinta stagione di House of Cards, il messaggio dell’ex First Lady è chiaro e inequivocabile. Eppure, a distanza di un anno e mezzo, nessuno poteva immaginare che nella pluripremiata serie, ci sarebbero stati così tanti cambiamenti radicali. Francis J. Underwood, 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America, è sepolto nel cortile di casa. Per i più appassionati, nessun colpo di scena. Dopo la decisione di Netflix di licenziare l’attore Kevin Spacey a causa dello scandalo sessuale che lo ha coinvolto, non si è fatta attendere la reazione dei fan, che hanno espresso il loro disappunto circa la scelta di sbarazzarsi di uno dei protagonisti più interessanti dell’attuale panorama seriale. Ma come cantavano i Queen, The show must go on.
LA SESTA STAGIONE
Il sesto capitolo di HOC vede Claire, dopo la morte del marito, seduta sulla poltrona dello studio ovale. Malgrado i continui attacchi dei media, la neo Presidente sembra avere la situazione saldamente in pugno e le prove a cui viene sottoposta non la distraggono dai suoi piani oscuri. A renderle la vita difficile, ci sono le new entry Diane Lane e Greg Kinnear, rispettivamente nei panni di Annette e Bill Shepherd, una coppia di fratelli a capo di una grande azienda industriale, e l’ex capo staff della Casa Bianca Doug Stamper (Michael Kelly) che, rinchiuso in un centro di cura psichiatrico, ha un solo e unico obiettivo: fare luce sulla morte di Frank, le cui cause sono ancora sconosciute. Chiudono il cerchio la giornalista Janine Skorsky (Constance Zimmer), alcuni la ricorderanno durante la seconda stagione, l’ex direttore della comunicazione Seth Grayson (Derek Cecil), Mark Usher (Campbell Scott), e Tom Hammerschmidt (Boris McGiver), il tenace redattore capo del Washington Herald. In questo poco brillante ultimo atto, la serie non riesce ad intensificare il processo narrativo a cui ci aveva abituati. La regia di Alik Sakharov, a tratti schematica e prevedibile, segue il compitino alla lettera, come se non riuscisse a liberarsi dei fantasmi del passato. Molti personaggi sono messi ai margini della narrazione, mentre chi dovrebbe trascinare lo spettatore dentro i meandri della politica e della comune debolezza umana, non favorisce la costruzione di una trama autentica. Robin Wright, nonostante l’interpretazione ipnotica, è vittima del suo diavolo interiore; persino i famosi monologhi davanti alla telecamera affogano in un vortice di pensieri inconcludenti, un guazzabuglio d’idee che si mostrano sotto la luce dell’ovvietà.
LA SPETTACOLARIZZAZIONE DEL DOLORE
Inutile nascondersi: House of Cards era Kevin Spacey. E il maschilismo non c’entra niente. Ma la produzione, complice l’onda inarrestabile del movimento #MeToo, ha deciso di puntare sul politically correct e di consegnare lo scettro di eroina a Claire Hale Underwood. Al di là del flop di ascolti, l’ultimo capitolo di una delle serie tv più promettenti degli ultimi anni, oltra ad essere un inno alla nostalgia, non è nient’altro che un tentativo di protesta ridotto ad un imbarazzante maschi vs femmine. La violenza sulle donne è un tema culturale che riguarda tutti, non certo una moda del momento.
– Luigi Affabile
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