Lisa Immordino Vreeland: il nuovo film Love, Cecil ad Altaroma
La regista racconta ad Artribune il nuovo film "Love, Cecil", dedicato al fotografo e costumista Cecil Beaton.
Lisa Immordino Vreeland, nipote acquisita della mitica direttrice di Vogue America Diana Vreeland, è una donna di carattere e di talento. Durante l’edizione invernale della kermesse Altaroma, con un talk moderato dalla storica della moda Clara Tosi Pamphili, nella Sala 2 del PratiBus District presenta il suo film “Love, Cecil”, che racconta sul grande schermo per immagini la vita dell’artista della fotografia e costumista inglese Cecil Beaton. Ad Artribune la regista parla del processo creativo e di ricerca che sta dietro al suo lavoro e dei personaggi forti che, con pregi e difetti, fanno parte dei suoi lungometraggi.
Ad Altaroma presenta “Love, Cecil”, documentario sul costumista e fotografo britannico Cecil Beaton che è anche un ritratto del XX secolo attraverso gli occhi di chi conosce la storia della moda in un insolito viaggio cinematografico. Come è nata l’idea?
Si tratta di viaggio nel XX secolo e tutti i miei personaggi in un certo senso si conoscono. Ci sono Diana Vreeland, Peggy Guggenheim. Vreeland e Beaton erano molto amici. Ho pensato a questo film quando giravo “Diana Vreeland: The Eye Has to Travel”. Quella di Beaton, così come le altre storie che ho scelto in precedenza, non è solo un racconto sulle cose che ha fatto e lasciato durante la sua vita. È anche una narrazione visiva della creatività dove non mancano le sfide individuali. Ho capito che le persone che vanno al cinema amano vedere il lato intimo dei personaggi, con i loro punti di forza e debolezza.
Che tipo di esperienza è stata dal punto di vista della ricerca e della realizzazione del docufilm?
Fantastica. “Love, Cecil” si basa su un grande lavoro di ricerca d’archivio. Recupero e sistemo sempre il materiale in anticipo e per questo film c’erano mille foto da valutare, quasi tutte basate in Inghilterra. Lì è dove la sua personalità esce fuori. Ma di lui volevo mostrare al pubblico molto di più, anche attraverso gli scatti che ha realizzato durante la Seconda Guerra Mondiale, immagini assolutamente moderne.
Tra i suoi precedenti lavori “Diana Vreeland: The Eye Has to Travel”, biopic su una delle figure iconiche del mondo della moda tanto da esserne definita l’Imperatrice…
E nei fatti lo è. Lo è ancora, anche se sono una di famiglia e non dovrei dirlo.
Cosa le ha lasciato indirettamente in eredità sul piano artistico e creativo?
Sono sposata con suo nipote. Di lei non ho nulla, ma mi ha trasmesso la passione. Soprattutto nella ricerca, da quando sono entrata in famiglia, perché anche io ho lavorato nella moda. Lei era ispirata da tantissime cose, era aperta al mondo e aveva una visione positiva su tutto quello che faceva supportata da una grande curiosità.
Tanto quanto Cecil Beaton?
È diverso. Tutti i miei personaggi hanno questa voglia di reinventarsi, Diana Vreeland scrisse nel suo diario “I wanna be that girl”, voleva essere brillante e infatti lo era, era una donna straordinaria. Anche Peggy Guggenheim ha fatto qualcosa per cambiare la sua vita. Ma Beaton era molto ambizioso, e questo era uno dei suoi lati negativi. Già a sei-sette anni sapeva che avrebbe fatto parte dell’élite inglese.
Un altro suo film completa quella che potremmo definire una trilogia sui grandi miti del passato, “Peggy Guggenheim: Art Addict”, l’arte e il collezionismo come espressione di una femminilità piena e libera…
Sì, e penso che lei abbia avuto una storia molto difficile. Da giovane non è stata amata e quando non si è amati non si può dare amore. L’arte le ha dato la possibilità di riscoprirsi e ridefinirsi. Aveva l’immensa qualità di voler condividere la sua collezione con gli altri. Ciò è sintomo di una generosità estrema. Nessuna collezionista aveva mai pensato di farlo. È stata una delle prime. Come personaggio nell’universo della storia dell’arte era importante a Parigi, Londra, New York e Venezia. Immaginiamo quando nel 1945 arrivò da divorziata nella vecchia Venezia, fu quasi uno scandalo. Con opere d’arte strane, astratte, poco capite dai più e, nonostante tutto, decise di comprare un palazzo e farne un museo.
E lei? Si sente una persona libera come regista o esistono ancora dei pregiudizi quando è una donna a stare dietro alla macchina da presa?
Ho fatto e faccio sempre quello che voglio. Non c’è niente che possa fermarmi. In tanti anni di esperienza, anche quando lavoravo nella moda, ho sempre trovato la mia strada. Non ho mai fatto parte di un grande team, devo fare le cose come voglio io. Amo raccontare le storie forti, delle persone con carattere, indipendentemente dal fatto che siano uomini o donne.
– Gustavo Marco P. Cipolla
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