A Cannes72, Atlantique di Mati Diop, la prima regista di colore nella Sezione Ufficiale
Un ritratto di Mati Diop, la prima regista di colore ad entrare nella Sezione Ufficiale del Festival di Cannes
“La riflessione critica sulla modernità è anche un ripensamento della sua immagine e dell’identità che su di essa si è costruita”. Afferma Eleonora Fiorani ne La nuova condizione di vita. Lavoro, corpo territorio, continuando: “La storia dell’Europa e dell’Occidente, […], è scritta nell’autoreferenzialità: pertanto è una storia monca, depurata della presenza dell’alterità che la costituisce. Si pensa e si costruisce nelle emigrazioni che colonizzano altri mondi, ma non nelle migrazioni che le sono altrettanto strutturali”. Colonizzazione e globalizzazione, diaspora, marginalità e nuove migrazioni sono parte integrante della cultura moderna, con le sue tre direttrici: scienza, capitale e tecnologia. Del resto, il fatto stesso di emigrare implica la decisione di dirigersi verso territori conosciuti. Ciò vale sia per le grandi ondate migratorie del XIX secolo verso l’Europa e il Nuovo Mondo, quanto per quelle pendolari e caotiche che caratterizzano la contemporaneità, che alle estremità vedono opporsi rifugiati e turisti. La consapevolezza di una storia globale caratterizzata dalla diaspora dei popoli e delle merci, suggerisce di ripensare l’identità partendo da processi transculturali. Una storia che deve ancora essere scritta, ma di cui si cominciano a incontrare le tracce nella letteratura, nella musica, nell’arte in senso stretto, nella moda e nel cinema. La presenza, all’interno dei principali festival internazionali di cinema, di storie che fanno capo ad altri mondi, non va più nella direzione della ricerca dell’esotico, bensì in quella che legge la differenza come parte integrante della realtà metropolitana e che apre a una visione dell’Europa molto più estesa rispetto ai suoi confini geografici, con tutto ciò che comporta da un punto di vista politico e culturale.
IL CINEMA DI MATI DIOP
Mati Diop è la prima regista di colore ad entrare nella selezione ufficiale del Festival di Cannes. Lo fa con un film imperfetto, soprattutto sul piano narrativo, ma estremamente ricco su quello del contenuto. In Atlantique convergono documentario, romance, horror soprannaturale, noir, guidati da uno sguardo e da una regia molto femminili (non a caso l’autrice parigina con origini senegalesi cita tra i suoi riferimenti Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola), per riflettere sulle contraddizioni che investono la donna, la società e l’economia del Senegal. Tutto comincia con una ribellione da parte degli operai che stanno costruendo a Dakar un grattacielo residenziale, stanchi di continuare a lavorare senza percepire lo stipendio da mesi. Una scelta molto forte, che non solo riferisce delle diseguaglianze sociali in atto, ma introduce anche il tema della trasformazione delle città africane, con il loro sincretismo paesaggistico tipico del “terzo mondo”. L’effetto più originale della globalizzazione infatti non è l’omologazione territoriale, bensì la poetica del caos che si instaura a partire dalla forte tensione tra mondializzazione e localizzazione, che vede fianco a fianco gated communities e slums, comunità-museo e che si reinventano.
IL FILM ATLANTIQUE A CANNES
Nelle città del terzo mondo si lavora alacremente alla conquista della nodalità, ossia per diventare un terminale delle molteplici reti dell’economia globale. In poche parole, per non essere tagliati fuori. Che cosa determina a livello microscopico questa tendenza? Quale ricaduta ha sulla vita della gente comune? Mati Diop lo racconta attraverso una storia d’amore impossibile, o quasi. Ada (Mame Bineta Sane) è promessa sposa a Omar (Babacar Sylla), un ricco e tradizionalista uomo d’affari, ma ama Souleiman (Traore), uno degli operai che stanno costruendo la grande torre. Una notte, dopo la ribellione, Souleiman e altri lavoratori decidono di partire con una piccola imbarcazione in direzione della Spagna, in cerca di fortuna. Il mare, ricorrente con tutti i suoi umori nelle inquadrature di Claire Mathon, che firma una suggestiva direzione della fotografia, diventa la loro tomba. Da questo momento la storia prende una deriva soprannaturale. Una febbre anomala contagia alcune donne. L’imprenditore che aveva negato la paga agli operai viene assalito, mentre è in casa con la moglie, da un gruppo di zombie (donne possedute dagli spiriti degli uomini morti in mare, che ritornano) che chiedono giustizia. Un misterioso detective cerca una spiegazione ai sinistri avvenimenti che si verificano in città. Molti spunti, forse troppi per una sceneggiatura che arranca, che introduce variazioni improvvise e che abbozza i personaggi.
I RIFERIMENTI
Dietro a molte scelte si riconosce l’influenza di Jordan Peele, ma senza la capacità di padroneggiare allo stesso livello una materia così complessa, che vorrebbe tenere insieme critica sociale (qui nella forma del documentario), cinema di genere e doppia coscienza africana. Anche la colonna sonora di Fatima Al Qadiri è lontana dal trionfo di Oneohtrix Point Never per Good Time dei fratelli Safdie (Soundtrack Award alla 70a edizione del Festival di Cannes), tanto quanto dalla potenza evocativa di Mica Levi in Under the Skin di Jonathan Glazer. Che cosa rimane dunque di Atlantique? Un tentativo, non completamente riuscito, ma non per questo poco importante, di dare voce all’Africa contemporanea, divisa tra presente, passato e futuro, simboleggiata anche dalle donne che popolano il film. Una su tutte, la protagonista Ada, che lentamente e in maniera silenziosa si mette in cerca della propria identità, nel tentativo di ricongiungersi col vero amore “partito per mare”.
–Carlotta Petracci
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