Le Daim (Deerskin), il nuovo film di Quentin Dupieux al Festival di Cannes 2019
Il nuovo film di Quentin Dupiex apre la Quinzaine des Réalixateurs, sezione parallela al Festival di Cannes. Ecco le nostre riflessioni
C’è stato un tempo nella pubblicità, in cui la parola d’ordine era “Stupiscimi!”. È quel tempo, forse troppo vicino, che la serialità non ha ancora raccontato. Che trova le sue radici nella mitologia che percorre gli Anni Cinquanta, raggiungendo, con una quantità di cambiamenti mai visti prima, i Settanta (in parte meravigliosamente rappresentato in Mad Men), che degli Ottanta conserva la bulimia e che dopo un tuffo carpiato nella depressione e nella noia, riemerge dalle acque torbide della seconda metà degli Anni Novanta, attraverso le manie e ossessioni dei kidult. Ah, avevamo dimenticato questa parola! E invece no. È sempre lì, pronta a far capolino tra le pieghe del sentire di quella generazione adulta, che non vuole crescere mai. Quentin Dupieux, o per chi lo ricorda con altro nome, Mr. Oizo, è uno di loro. Un “tarantiniano”. Del resto l’autore americano è diventato il marchio di una generazione globale, e anche la sua punta più alta. Gli altri, tutti dietro, a rimasticare con una certa originalità (o anche senza) prodotti e sottoprodotti della cultura popolare. Molto favorito, il cinema di genere, ma non mancano le incursioni anche in quello d’autore, diventato a suo modo di genere, una volta guardato con gli occhi famelici del citazionismo (e soprattutto senza il talento drammaturgico di Tarantino). Se vogliamo incolpare qualcuno di queste innovazioni, non innovative, diventate retrospettivamente una specie di pantano ammantato di crossmedialità: ecco, è tutta colpa della pubblicità. E allora Quentin: stupiscici! Le Daim (Deerskin), settimo film del regista francese, non manca di originalità. Nonostante l’idea sia semplicissima da decodificare (e soprattutto da pensare) per un pubblicitario.
L’OSSESSIONE PER L’OGGETTO IN “LE DAIM” DI QUENTIN DUPIEX
C’è un personaggio ossessionato da un oggetto. Così ossessionato, che potremmo dire innamorato. Anzi no, l’oggetto in questione, una giacca di vera pelle di renna, diventa proprio il suo compagno, il suo confidente. Telepaticamente parlano e non c’è niente di strano perché il mondo della pubblicità è animato, sovrannaturale, fantastico. È il regno dove tutto è possibile e dove tutti vorrebbero tornare. Il non-luogo in cui con gli oggetti e con gli ambienti si conversa, dove con le piante si può persino fare l’amore, per citare una delle campagne più brillanti della Diesel. Il mondo immaginario della pubblicità è favoloso, ma attenzione: assolutamente imprevedibile. Potremmo uscire da un bar e ritrovarci improvvisamente schiacciati come scarafaggi da un’auto piombata dal cielo. Anzi dal nowhere, perché quello spazio non ha nome, coordinate e geografia. Da quando il consumatore è diventato erudito, infatti il tono della pubblicità si è fatto scorretto. L’humor nero Dupieux lo conosce bene e lo preferisce sicuramente alla smartness dei primi Duemila. Ma torniamo al mondo degli oggetti: partner seduttivi, materializzazione di desideri e rifugi. Del resto a chi non è capitato di leggere un testo di sociologia della moda, con tutte quelle idee sugli abiti (habitus, stessa radice etimologica per abito, abitudine e abitare) come seconda pelle, corazza o vere e proprie abitazioni? (fortunatamente a qualche decennio di distanza ci siamo dimenticati dei vestiti che diventavano tende e case mobili per i nomadi postmoderni metropolitani). Una delle tante domande che identificano la cosiddetta “classe creativa”: art director, copywriter, registi, videomaker, trendsetter (prima dei blogger), fashion editor, giornalisti di style magazine, fotografi, sceneggiatori in procinto di fare l’impossibile salto nel cinema, oggi delusi perché “in pubblicità non si sperimenta più come una volta”. Quentin Dupieux è figlio di quel periodo storico e dell’era dei videoclip dove stardom era sinonimo di uncool, l’imperativo era “raccontami qualcosa di nuovo”, e il regista simbolo, Michel Gondry, con cui Dupiex non a caso ha collaborato.
IL SENSO DI “LE DAIM”
Nonostante queste premesse molto critiche, ma che restituiscono a chi da sempre si occupa di cinema, uno sguardo sui segreti che si nascondono dietro alle storie apparentemente “pazze” dei registi che provengono dalla pubblicità (con tutto il loro corredo di riferimenti narrativi che solo in minima parte si trovano nel cinema), Le Daim è una piccola ventata d’aria fresca, in tempi in cui capitalismo e impegno politico si accompagnano felicemente (con ricadute positive e negative sul cinema). Una godibile immersione nell’assurdo, che si sostiene grazie alla perfomance del premio Oscar Jean Dujardin anche laddove non arriva la sceneggiatura, che ha aperto la Quinzaine des Réalizateur, diretta da Paolo Moretti. Un film attuale, per la capacità di riflettere, attraverso l’iconico dress code del cowboy, rigorosamente in vera pelle di renna e manifattura italiana (non mancando di sottolineare con questa scelta che il western, per quella generazione, è rappresentato da Sergio Leone), sulla trasformazione dell’eroe da macho a loser, da fiero cavaliere solitario a uomo drammaticamente solo e finalmente libero (in un’interpretazione derivata potremmo dire: libero anche dalla necessità di ricoprire il ruolo di macho, che ironicamente per tutto il film si ostina a voler rivestire, quasi si trattasse di un surrogato obbligato di fronte alla crisi identitaria). Dupieux durante le domande che sono seguite alla visione del film ha sottolineato infatti che si tratta sia di una storia che racconta di come l’ossessione porti alla follia, sia della libertà. Quella che spinge George (Jean Dujardin) a fuggire da un contesto e da relazioni sentimentali dolorose (che purtroppo rimangono fuori dall’obiettivo, togliendo spessore psicologico al personaggio), a vestire i panni del killer, visto attraverso la lente di ingrandimento del costume come un supereroe al contrario, e a diventare contemporaneamente regista e attore, non solo del proprio film (che non si vede mai come opera) ma della propria vita. Tanto che la domanda sorge spontanea, come in Peeping Tom o ne Il cameraman e l’assassino, è George o lo sguardo che uccide? In realtà, il finale ribalta le carte. Perché non dimentichiamoci che Quentin Dupieux viene dalla pubblicità, e forse crede più nella magia del fantastico, nell’animismo che dona vita agli oggetti, che nell’intellettualismo del metacinema, nonostante dimostri di sapere mescolare i generi e compiacere i cinefili con l’imperdibile (quanto scontata) battuta dell’aspirante editor, interpretata da Adèle Haenel, sul rimettere in ordine Pulp Fiction.
– Carlotta Petracci
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