Appunti di un sognatore irriverente. Federico Fellini a Padova
Musei Civici agli Eremitani, Padova – fino al 1° settembre 2019. Il 20 gennaio 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini: Padova lo festeggia in anticipo sui tempi, celebrando nella monografica agli Eremitani la vena satirica del grande Mago e un’inedita dimensione creativa della sua irriverente fucina di sogni.
Si chiamava Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993) e lasciò Rimini per andare a cambiare il cinema: a Roma portò con sé una valigia di personaggi immortali, che hanno raccontato l’Italia alle platee del mondo con una lucidità poetica e visionaria in cui “nulla si sa e tutto s’immagina”. Fellini è il cantafavole che ha aperto lo sguardo del cinema all’immaginifico: dopo essersi lasciato alle spalle l’oggettività neorealista, ha elogiato la pazzia delle anime semplici, in grado di sorridere alla vita nonostante i suoi morsi e di stupirsi ancora davanti alle misteriose meraviglie del mondo.
Fare una mostra su una personalità così eccessiva, mutevole, sfuggente e al tempo stesso mitizzata, come quella del regista riminese, è una sfida, perché l’unico modo per avvicinare il suo genio è cercarlo nei film, nelle interviste, negli scritti. Fellini si trova nel caleidoscopio delle sue caricature, in quel girotondo bizzarro di antieroi in festa, di clown e nani, di donne immense e giocolieri, che hanno imbrigliato lo spettatore nella sua carnevalesca mitologia personale di ricordi e fantasie, vita e immaginazione. Per tutta la vita ha girato “sempre lo stesso film”, che lo ha portato a esorcizzare le paure e a trasformare le mostruosità in ricerca di redenzione; con il suo alter ego Marcello nella Dolce vita ha percorso i gironi di un moderno inferno dantesco, alle cui feste seguono albe tristi e illusioni che s’infrangono in riva al mare. Così ha impresso sulla pellicola i sogni degli italiani e la grigia amarezza di un tuffo che i Vitelloni non faranno mai.
I DISEGNI
Il percorso della monografica ai Musei Civici di Padova procede per temi a partire dalle foto di famiglia, si snoda fra lettere e contratti, attraversa le locandine originali. Le prime parole delle sceneggiature scritte a macchina rievocano sogni popolari sopiti e appare sull’altalena lo Sceicco bianco ‒ Alberto Sordi, in tutta la sua finta divinità. Se Anita Ekberg, infantile e smaliziata nella Fontana di Trevi, rimarrà per sempre una vestale inarrivabile, Fellini ha scelto come compagna di viaggio la meno diva di tutte: Giulietta Masina è stata la certezza creativa, la sua bambina e la sua donna, Gelsomina e Cabiria, buffa e tragica come solo un piccolo clown arruffato sa essere. Si procede fino a una sorta di teatro dismesso da cui gli attori se ne sono andati: hanno abbandonato i loro sontuosi costumi di scena e le maschere, rimasti senza burattinaio, svuotati dalle emozioni come il Pinocchio funebre del suo Casanova.
LE DONNE E I SOGNI
L’attenzione dei curatori va alla natura spontanea dell’atto creativo di Fellini: scopriamo, negli oltre 160 disegni, gli inizi da vignettista ma soprattutto la vena febbrile di un’immaginazione dirompente e sboccata, eroticamente sfacciata. Nella battaglia archetipica dell’amore prendono il sopravvento superdonne aggressive e muscolose: dietro la tenda di un teatro vietato ai minori si scatenano le fantasie più trasgressive del regista, in una carica ludica finale da fuochi d’artificio.
Disegnava ovunque Fellini, perfino sui tovaglioli dei ristoranti: scarabocchiava al telefono, quando voleva spiegarsi; disegnava gli attori che immaginava per un film e poi li andava a cercare. Appuntava i sogni al risveglio, e, anche se la memoria del sogno regge pochi minuti, su quel block-notes “sgrammaticato” che teneva sul comodino ha scritto la storia del cinema.
‒ Serena Tacchini
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