Abbiamo intervistato Christo in occasione dell’uscita del docufilm su Floating Piers
Il docufilm “Christo – Walking on Water” è nelle sale cinematografiche dal 16 al 19 giugno 2019. È il racconto del progetto visionario di uno dei più grandi artisti del nostro tempo e di tutti i passi compiuti per realizzarlo. Abbiamo incontrato Christo per chiedergli della sua opera, del suo pensiero e della sua vita.
Dal 16 al 19 giugno 2019, viene trasmesso nelle sale cinematografiche italiane Christo – Walking on Water, il film evento diretto da Andrey Paounov che racconta l’intero percorso di Floating Piers, dalla fase progettuale alle sfide ingegneristiche, dalle imprese logistiche alla realizzazione finale. Il film esce nel decimo anniversario dalla scomparsa di Jeanne-Claude, compagna di vita di Christo assieme alla quale l’artista ha concepito ogni progetto nell’arco di cinquant’anni di carriera artistica. Floating Piers, il grande ponte galleggiante sulla superficie del Lago di Iseo, è stato accessibile al pubblico tra il 18 giugno e il 3 luglio 2016, ottenendo un successo straordinario con oltre 1 milione e 200mila visitatori in sole due settimane. Un evento senza precedenti che, grazie a Christo – Walking on Water possiamo rivivere e osservare dal dietro le quinte. Per l’occasione, abbiamo intervistato Christo, che ci ha parlato non solo di cosa è accaduto durante la realizzazione dell’opera, ma di come ogni progetto sia per lui un nuovo e incredibile viaggio della sua vita, un sogno che viene diviene realtà dopo essere esistito, per anni, solo in un disegno.
Perché ha scelto il Lago d’Iseo come destinazione finale di Floating Piers, un progetto nato quasi cinquant’anni fa? Aveva già un legame personale con questo luogo?
Non saprei dire se questo posto mi sia familiare, ma dal ’58 al ’64 io Jeanne-Claude abbiamo vissuto a Parigi, e in quel periodo avevamo molte attività in Italia, come mostre in galleria e opere pubbliche. Abbiamo lavorato a Spoleto nel 1968, a Milano nel 1970 e a Roma nel 1974. Conosco bene tutto il nord Italia, compreso il Lago di Iseo.
Cosa vi ha spinto a filmare l’intera realizzazione di Floating Piers, dalla fase progettuale alla sua costruzione?
Tutti i nostri lavori fatti fin ora – 23 in cinquant’anni – sono temporanei, esistono solo per un breve periodo, quindi siamo sempre stati molto attenti a documentarli. Abbiamo fatto pubblicazioni speciali, cataloghi ma anche filmati, perciò questa volta abbiamo voluto iniziare le riprese prima che il progetto fosse cominciato. Ci siamo ritrovati con tantissime ore di registrazione accumulate in due anni di lavoro. Dal materiale selezionato è venuto fuori il film.
Christo – Walking on Water, mostra chiaramente come ogni fase di un progetto così complesso comporti difficoltà e problemi da risolvere. Ma c’è un passaggio, uno dei più emozionanti, in cui, in mezzo al Lago d’Iseo, ha visto il ponte prendere forma, comprendendo che l’installazione stava realmente funzionando. Come si è sentito?
Sai, ogni cosa di quello che faccio è sempre qualcosa di nuovo e cerco sempre di viverlo al massimo, sperando venga fuori al meglio. Poi, come si sa, il lavoro non viene realizzato da me, ma da un team incredibile di professionisti, tra ingegneri, sub, piloti, operai, e noi dobbiamo coordinare i lavori facendo in modo che tutto fili liscio.
Ci spieghi meglio.
Ovviamente è una grande soddisfazione quando il progetto prende forma e vedo quei piccoli disegni tracciati anni prima diventare realtà. Quando si comincia non si sa come andranno fatte le cose, lo si scopre passo a passo. I miei lavori non sono normali dipinti o sculture, non è l’arte che si vede nei musei, sono operazioni che hanno a che fare con l’architettura, l’urbanistica, che spesso avranno un impatto sulla folla cittadina. Viste le sue dimensioni, è un lavoro che non può essere inventato, bisogna solo crederci!
Floating Piers è finito per diventare un evento popolare, con oltre 1,2 milioni di visitatori in pochi giorni. Si sarebbe mai aspettato un simile esito negli anni ’70, quando ha concepito questo progetto?
Io non mi aspetto mai niente! È sempre difficile fare delle previsioni. Tutti i progetti sono pensati per spazi pubblici, vissuti da chiunque passi di lì. Ci sono diverse logistiche da gestire, come il flusso di persone e di materiali. Nel corso del tempo abbiamo realizzato progetti in spazi aperti o deserti, come la campagna, ma Floating Piers decisamente non era posto in uno spazio facile, partiva da piccoli paesi come Montisola.
Nel film si vede chiaramente come queste ristrettezze di spazio vi abbiano causato problemi logistici.
Non è stato facile per via delle infrastrutture, della folla di persone che doveva passare per queste strade strette… Dovevamo risolvere questo problema e sapevamo che anche questo faceva parte della gestione del nostro progetto. Abbiamo cercato di adottare ogni soluzione per creare una mobilità, per adattare questo enorme flusso di visitatori che non ci aspettavamo, e tutto questo è ben documentato nel film.
Parlando della sua vita, lei ha vissuto in due mondi estremamente diversi, prima il regime comunista in Bulgaria e poi il capitalismo dell’occidente in Europa e America. Cosa ha significato questo passaggio per la sua vita e la sua carriera?
Sono nato nel 1935 in un paese comunista estremamente oppressivo della Bulgaria, per poi scappare in occidente da solo, vivendo da rifugiato politico, perché volevo fare l’artista o l’architetto. Sono scappato per dar vita alla mia arte individuale. Ho fatto tutto questo per essere totalmente libero. Totalmente libero! Non volevo essere legato a niente e a nessuno. Sono stato educato dal marxismo e ho usato il sistema capitalistico per guadagnarmi la libertà.
Ci parli del modo in cui questi progetti sono finanziati.
Mi sono sempre auto finanziato le opere vendendo i disegni dei progetti fatti a mano da me, non ho mai avuto nessun assistente. Faccio tutto da solo. Con i soldi posso fare quello che voglio, non ho committenti. Sono io a gestirli, è la mia libertà. Questo è il motivo per cui non ho mai pensato a premi, fondazioni, grants.
E quali sono i costi da sostenere?
Quando noi facciamo un progetto affittiamo uno spazio pubblico, com’è successo al Lago di Iseo. Nel 2005 abbiamo affittato il Central Park di New York per tre mesi, spendendo 3 milioni di dollari. Per realizzare i progetti, ingaggiamo dei professionisti estremamente qualificati e molto costosi. Ma il gioco del capitalismo consiste in questo, comprarsi la propria libertà per non dover scendere a nessun compromesso né avere committenti. Questo è il motivo per cui negli ultimi 50 anni, abbiamo realizzato 23 progetti ma abbiamo chiesto i permessi per 47, che fa capire quanti ce ne siano ancora da realizzare.
Effettivamente è un rapporto impressionante.
Parla con un architetto, quante case ha realizzato? Sicuramente molte meno di quelle che ha progettato. Il costo complessivo della realizzazione delle opere è altissimo, ecco perché il prezzo dei miei disegni è così elevato. Ne faccio un numero limitato prima di iniziare il progetto, e a mano a mano che vengono venduti i prezzi salgono. Ho tante gallerie, art dealer pubblici e privati, ma non ho né esclusività né legami particolari con nessuno di loro.
Qual è il bello del gioco, quindi?
Non c’è nulla di nascosto, questo è ciò che mi piace fare, mi fa sentire bene mentalmente e fisicamente. Mi imbatto in avventure incredibili, qualcosa che non vivrò mai più. Ogni progetto costituisce un viaggio della mia vita, qualcosa di indimenticabile. Ecco perché la libertà è per me la cosa più importante.
Parliamo di uno dei prossimi progetti, The Mastaba for Abu Dhabi.
Del mio lavoro la parte più difficile sono i permessi. È difficile ottenerli, proprio per questo gli interventi non durano mai per lungo tempo. Anche The Mastaba è stato concepito negli anni ’70, ed è sempre la stessa storia: lavoriamo simultaneamente su più progetti sperando che almeno uno riesca ad ottenere le autorizzazioni per essere realizzato. Mi piace il modo in cui finisce il film, con una scena ad Abu Dhabi, perché dimostra come lavoriamo su progetti differenti allo stesso momento, riuscendo a realizzare qualcosa iniziato molto tempo fa.
A proposito di questa città, Abu Dhabi sta provando a costruirsi una reputazione nel panorama artistico contemporaneo puntando su grandi nomi della scena architettonica e su “operazioni” che sono sfociate in scandali, come il caso Salvator Mundi. Qual è la sua opinione in merito? Considera ancora Abu Dhabi come la meta ideale della sua opera?
Certamente. Anche se sono al centro degli scandali, noi lavoreremo al progetto in modo indipendente, non siamo stati invitati dal Governo. Come sempre sono i miei soldi, farò tutto da solo. Abbiamo fatto tanti progetti in paesi diversi, ognuno di questi alle prese con problemi e scandali, ma noi non abbiamo mai avuto nessuna relazione con nessun governo, se non per chiedere le autorizzazioni.
Come vive il fatto che ogni progetto possa avere ogni volta una location diversa, a seconda del paese che accetterà di ospitarla?
Una volta che si realizza un progetto rimane quello anche se si cambia paese. Ognuno di essi ha una lunga storia e io non cambio nessun dettaglio nel corso degli anni. Per Floating Piers, ad esempio, avevamo chiesto l’autorizzazione all’Argentina e al Giappone, che ce l’hanno rifiutata.
Sarà così anche per l’Arco di Trionfo di Parigi, previsto per il 2020?
È sempre la stessa storia! Era l’inizio degli anni ’60 quando ho chiesto la prima autorizzazione per impacchettare un monumento pubblico a Parigi. Finora è stato tra i 47 progetti mai realizzati; non avrei mai creduto che sarebbe successo, ma invece è successo. Il mondo è cambiato e il presidente, che ha uno spirito più visionario, ha rilasciato le autorizzazioni dopo solo due riunioni. I progetti nel tempo crescono, anche quando sono ancora solo idee nella mente delle persone.
– Giulia Ronchi
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