Romanistan. Spazio, identità e nomadismo. Il film di Luca Vitone
Presentato in anteprima a Lo schermo dell’arte 2019, il film di Luca Vitone riguardante il popolo Rom. È un viaggio al contrario, da Bologna fino all’India, per raccontare luoghi e persone che hanno una storia e una memoria diversa dalla nostra, non scritta e non “monumentale”. Oltre al film c’è anche una mostra e una pubblicazione sul tema
I Rom sono arrivati in Europa alla fine del 1300, ufficialmente in Italia dal 1422. Un primo documento che li riguarda è custodito nella Biblioteca Universitaria di Bologna, in una cronaca cittadina del 18 luglio 1422. Al popolo Rom Luca Vitone dedica il suo documentario Romanistan. Un road movie in cui l’artista, insieme a una troupe di sette persone, percorre a ritroso il tragitto di migrazione di questo popolo. Nei 43 giorni di viaggio, Vitone e la troupe attraversano i Balcani, la Turchia, la Georgia, l’Armenia, l’Iran, il Pakistan fino all’India. Nel corso del viaggio seguono diverse interviste e tra queste alcune personalità Rom che vivono in quei paesi: Veljko Kajtazi, Deputato Parlamentare croato, l’attivista Lilyana Kovatcheva, il giornalista Orhan Galjus, Santino Spinelli musicista e docente, eletto nel 2001 quale unico rappresentante per l’Italia al Parlamento dell’Unione Internazionale Romaní (IRU). Interviste e paesaggi si intersecano seguendo una storia fatta di tradizioni antiche e orali. Abbiamo raggiunto telefonicamente Luca Vitone e approfondito con lui questo documentario.
“Romanistan” non è solo un film, ma anche una mostra e una pubblicazione…
Il progetto nasce una decina di anni fa. Da subito c’era l’idea di fare questo viaggio e da questo di fare un film. I Rom partirono dall’India per arrivare in Europa e io da Bologna per poi arrivare a Nuova Delhi. Questo progetto è stato possibile grazie al bando promosso da Italian Council. Questo prevedeva di trovare un partner culturale e quindi mi sono rivolto al Museo Pecci. Lavorando sul progetto, è venuta fuori una mostra che racconta l’idea di viaggio e il mio rapporto con il mondo Rom e un libro, sempre con lo stesso titolo, pubblicato con Humboldt. Nella mostra ci sono una dozzina di opere delle quali sei sono inedite, pensate in questo periodo e affiancate da altre opere recenti o meno che raccontano la mia idea di viaggio, il mio rapporto con i Rom e la relazione con questo progetto che era nella mia testa da tanti anni.
Di questo viaggio cosa l’ha colpita? Quali sono stati i momenti e gli elementi principali?
Il paesaggio e le persone che ho incontrato che sono state tutte amabilmente e generosamente ospitali, sia che fossero Rom o che non lo fossero. Questo viaggio l’ho pensato perché mi interessava l’idea di ripercorrere le vicende di un popolo che non ha mai scritto la propria storia. Fino alla metà del 900 non aveva un alfabeto, ma solo una tradizione orale tramandata di generazione in generazione e fondata sui due elementi principali della cultura Rom: la lingua e la musica. E questo è anche uno degli elementi fondamentali del film dove per le immagini c’è il paesaggio. I Deserti, le montagne, i boschi, il mare sono l’involucro che ha ospitato noi durante il viaggio e il popolo Rom durante il loro.
E per il sonoro?
La lingua Rom. Nasce dal sanscrito, è una lingua indoeuropea. Prima era un hindi dialettizzato, successivamente con la migrazione si è trasformato in una lingua vera e propria oggi parlata in tutto il mondo da circa 23 milioni di persone. Nel film ci sono inoltre delle musiche che abbiamo registrato proprio durante il viaggio incontrando musicisti Rom lungo il percorso.
Come mai ancora troppi pregiudizi nei confronti di questo popolo?
L’uomo è desideroso di supremazia e ora siamo in un momento drammatico da questo punto di vista. I Rom nonostante siano presenti in Europa da 700 anni sono ancora considerati l’ultimo straniero presente nel nostro continente e insieme al popolo ebraico sono stati i due bersagli principali per sfogare il malcontento. Sono un capro espiatorio su cui i governi per decenni, nel momento in cui avevano bisogno di delegare le proprie oscenità a qualcun altro, hanno trasferito questo disappunto, odio, disapprovazione. I Rom sono ancora più fragili come cultura del mondo ebraico. Il popolo ebraico si definisce un popolo eletto e ha un libro che è stato fondativo per tre religioni mediterranee, quelle che comprendono almeno un terzo della popolazione mondiale. I Rom non hanno nemmeno un libro, non hanno un’architettura. Infatti nel film Romanistan non ci sono siti archeologici o ruderi o planimetrie urbane che ne testimoniano una presenza. Tutto quello che noi sappiamo su di loro sono cronache che vengono dal di fuori, da chi osserva e ha osservato il loro passaggio.
Che percezione hanno i Rom che ha incontrato “del altro”, e quindi di noi?
Sono un popolo molto aperto e al tempo stesso molto chiuso perché dopo secoli di maltrattamenti sono spaventati nei confronti di qualsiasi atteggiamento autoritario che noi rivolgiamo loro. L’Italia soprattutto è il posto peggiore per la popolazione Rom in Europa. Continuiamo a relegare una piccola parte di loro in quelli che chiamiamo campi nomadi che sono una forma di apartheid decennale che sopravvive nel nostro Paese. Ci sono circa 170 mila Rom che vivono in Italia e di questi circa 20 mila vivono nei campi. Gli altri vivono tranquillamente nelle case come qualsiasi altra persona. La maggior parte di questi sono cittadini italiani e da diverso tempo. Nonostante questo se un datore di lavoro scopre che il dipendente che ha assunto è di etnia Rom, la persona rischia di essere licenziata perché il nostro pregiudizio li identifica come ladri. Come qualsiasi comunità hanno i loro ladri, con una piccola differenza, loro hanno solo ladri di polli, noi abbiamo anche quelli istituzionali, loro quelli non li possono avere!
Un capro espiatorio quindi…
È inverosimile che un Paese di 60 milioni di abitanti possa considerare il popolo Rom un pericolo istituzionale. C’è qualcosa che non funziona! È evidente che vengono usati come capro espiatorio che serve per tenerli nei campi senza riscaldamento e luce, isolati, sempre in periferia, tra una discarica, un carcere, un canile, messi sempre a lato. Così il Paese assorbe una marea di investimenti che loro non vedono ma che serve per fare sopravvivere tutte quelle istituzioni pensate dai vari governi che mantengono emarginate queste persone. Costerebbe molto meno trovare una sistemazione a queste persone e integrarle che non mantenerle in questo modo selvaggio. Anche loro desidererebbero una vita normale e non sotto il fango e circondati dai nostri scarti, ma questo dal governo non è previsto. Ovviamente in questi luoghi la delinquenza aumenta. D’altra parte se noi pensiamo al popolo italiano troviamo molta più delinquenza nel quartiere periferico che non in centro città. È ovvio che nella periferia disagiata la persona pensa a sopravvivere.
–Margherita Bordino
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