Punta Sacra di Francesca Mazzoleni. Un documentario sulle radici e la resistenza
Unico film italiano presentato in Concorso nella sezione ufficiale di Visions du Réel, uno dei maggiori festival internazionali dedicati ai documentari. Un film sul senso di comunità, di difesa della propria casa, di necessità di essere ascoltati
L’idroscalo di Ostia, alla foce del Tevere, è un luogo ameno, quasi arcaico, che abbiamo imparato a conoscere con il cinema ma anche attraverso la cronaca. Questo posto, che gli abitanti chiamano la Punta Sacra, è legato tra gli altri a Pasolini, Fellini, Caligari. È un luogo che si conosce solo dall’esterno e non dall’interno, dalla voce delle persone che abitano lì e resistono con passione e speranza a una continua minaccia di sgombero dalle proprie case. Punta Sacra è un film che si inserisce in tutto questo non visto e non detto. È il documentario di Francesca Mazzoleni, con cui la regista entra nel quotidiano di queste persone e ne racconta la malinconia ma anche la gioia, la resistenza ma anche l’incertezza. Un documentario che traccia benissimo il senso di appartenenza a una comunità e di protezione delle proprie radici. Punta Sacra è l’unico film italiano presentato in concorso nella sezione ufficiale di Visions du Réel, uno dei maggiori festival internazionali dedicati ai documentari. Di seguito l’intervista con la regista.
Partiamo da una frase: “te ne devi andare, almeno uno si da una possibilità nella vita”.
È la frase di Danila verso sua figlia. Una delle scene emblematiche del conflitto che vivono ad Ostia. È una zona estremamente isolata, sempre raccontata nel suo degrado; però c’è un fortissimo attaccamento verso il luogo da parte di quasi tutti. Franca (l’altra capofamiglia del documentario) e le sue figlie raccontano un amore quasi nostalgico in questa lotta continua per restare lì, in un posto in cui è chiaramente richiesto un intervento esterno perché possa migliorare.
Sono tante le adolescenti nel film…
Nel dialogo tra Danila e la figlia mi piaceva dare appunto un ampio sguardo soprattutto sulle nuove generazioni. Io per prima mi sono posta la domanda ‘cosa pensano queste ragazze giovanissime che sono esposte a un contatto diverso con l’esterno, anche tramite i social?’. Nella scena tra Danila e sua figlia è paradossale come sia la madre e non la figlia a vedere i problemi del contesto in cui si trovano. È un po’ un capovolgimento di idee. Non ho trovato giovani che vogliono fuggire, bensì qualche genitore che spera in qualcosa di diverso per i propri figli. Le radici sono fortissime, perciò ci siamo chiesti cosa significa essere ancorati ad un luogo così complicato.
La comunità che si vedere in Punta Sacra è pacifica, nostalgica, ma non prova rabbia….
A loro è stata inferta una ferita terribile nel 2010 e da quel vuoto stanno cercando di ripartire, creando un dialogo diverso con le varie forme politiche. Per la comunità di Punta Sacra il discorso è sempre lo stesso: trovare un contatto con l’esterno per essere ascoltati. Nel film, Franca si racconta come una guerriera che non vede l’ora di indossare l’elmetto e andare a combattere. In realtà fa un tentativo per fare capire il tipo di vita che la gente conduce in quel lembo di terra, e per fare ascoltare le richieste di chi ci abita. Le scelte per Punta Sacra sono purtroppo state fatte fino ad ora senza mai comprendere le esigenze reali di chi ci vive. Uno dei motivi che mi ha convinto a realizzare il film è mostrare la quotidianità all’interno di questa comunità, una quotidianità che ha una sua storia e che va rispettata.
È un documentario molto intimo. Sei entrata nelle case di queste persone e la telecamera ha in un certo senso invaso la loro vita. Quanto tempo c’è voluto per stabilire un contatto e cominciare a girare?
Ci sono stati vari step. Il luogo e Franca in primis. Sono entrata in contatto con loro 7 anni fa. Riflettevamo sul fatto che non è giusto che lì vadano a girare film e serie tv senza sapere chi sono le persone che ci abitano e cosa fanno durante le loro giornate. È un posto visivamente molto bello e suggestivo ma nessuno sa chi ci vive. Così Franca pian piano, in molto tempo, mi ha aperto le porte della sua casa e della sua famiglia. Col suo benestare, e quando il progetto ha cominciato a diventare concreto, sono entrata in contatto anche col resto della comunità. Questo processo era per me fondamentale. Anche la mia squadra è stata accettata pian piano fino a diventare parte integrante della loro vita di tutti i giorni. Ma prima di accendere la telecamera è trascorso molto tempo: dovevo avere le idee chiare. Anzi, dovevamo sia io e che loro, per creare e ritrarre i personaggi: la cosa più complicata in un documentario. Finalmente poi ho preso tutto ciò che in modo naturale loro hanno voluto condividere con me.
Immagino che anche nel montaggio sia stato complesso mantenere questo tipo di empatia….
Non è stato semplice, abbiamo dovuto comprendere chi fossero veramente i personaggi. Capire chi avesse veramente voglia di raccontarsi davanti alla macchina da presa, chi la subiva di più, chi invece se la sentiva e si mostrava più autentico. Appena accendi la camera in un documentario la verità scompare. È stato stimolante costruire insieme alla comunità l’immagine che ognuno voleva dare di se stesso. L’obiettivo era quello di restituire più verità possibile.
Non trascuri mai musica e sonoro. In questo caso come hai lavorato?
Ho lavorato con Lorenzo Tomio che sa adattarsi e spaziare benissimo. Abbiamo lavorato sulla vitalità delle musiche autoctone, sulla rabbia di Chiky Realeza, suikaraoke, sul loro modo di cantare Alleluia. Abbiamo cercato di dare una sensazione di malinconia, ma senza cercare il dramma. Il nostro è un documentario che ha tanta vitalità, come si sente dal primo brano che richiama l’infanzia. Abbiamo lavorato anche su uno stesso tema in modo da dare un’unità sonora a un film che è frammentario.
E la canzone finale?
È nata in modo del tutto improvviso. Eravamo in spiaggetta allo scalo, stavamo parlando e Chiky Realeza, un rapper del luogo, figlio di padre cileno, un ragazzo in conflitto con le realtà che vive, dalla quale però attinge nella sua arte, mi ha detto di avere una canzone sull’idroscalo, sulle sue sensazioni riguardo al luogo. L’ho sentita, è stato un colpo di fulmine e gli ho promesso che sarebbe stata nel film. Lui ha un grande talento. Ha un rap quasi classico. Porta avanti dei discorsi e dei valori precisi, non è il rap di moda.
Il film è frammentario e diviso in capitoli: il passaggio tra questi prevede delle riprese dell’idroscalo…
Ero molto tentata ma anche molto scettica sull’uso del drone perché ormai lo stanno usando nelle fiction, nei reportage, è alla portata di tutti e anche un po’ abusato. Mi sono però detta che volevo rappresentare questo luogo dall’alto perché da dentro lo si può intuire ma dall’alto si ha una chiave di lettura più potente. È stato un modo per offrire uno sguardo in più e sentire quanto quel pezzo di terra sia accerchiato dall’acqua, in tutti i sensi. E così l’ho usato ogni volta per mostrare un pezzo in più. L’idea stessa dei capitoli è nata a causa del drone, per dare un senso di continuità a una storia non orizzontale.
Ogni capitolo ha un suo titolo, una sua chiave di lettura.
Abbiamo avuto questa idea alla fine, per aggiungere un ordine alle scene. Gli ultimi capitoli sono dedicati alla “fede” e alla “festa” e dialogano perfettamente tra di loro. Quello sulla “fede” introduce tutti i discorsi riguardo a Dio, alla religione, ma anche alla spiritualità del luogo. Entra in scena il personaggio del prete e fa da staffetta per la “festa”. Questi due capitoli offrono un po’ il senso di tutto il documentario, del perché questa comunità nel suo continuo festeggiare – ci sono 4 feste nel film – proponga un’idea di credo, di speranza. È il modo di Punta Sacra di dire ‘noi esistiamo, non ci autocommiseriamo e anzi festeggiamo continuamente nella speranza di restare qua per sempre’.
–Margherita Bordino
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