Sergio Leone: l’italiano che racconta il West
Un focus su “Il buono, il brutto e il cattivo” e “C’era una volta il West”, capolavori di Sergio Leone, cineasta che ha saputo raccontare l’America in maniera magistrale.
La produzione filmica di Sergio Leone (Roma, 1929-1989) che prende inizio negli Anni Sessanta, è lontana sia culturalmente che stilisticamente dal cosiddetto “cinema d’autore” che nell’Italia dell’epoca rimanda a registi quali Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni.
Mentre il cinema autoriale italiano si configura come un cinema intellettuale, elitario e austero, che lotta contro l’avanzare preponderante dei film hollywoodiani, il regista Sergio Leone sceglie invece altre strade affini allo spettacolo, all’azione e a una certa produzione americana.
Sono proprio i film statunitensi ad accompagnare l’adolescenza del regista; infatti con la fine del fascismo e la censura di ogni prodotto americano, Hollywood diviene il più esuberante centro propulsore di cultura cinematografica al mondo.
Il rapporto appassionato che Leone instaura con il cinema statunitense lo spinge a rivisitare con gli occhi di un italiano il genere western, che negli USA alla fine degli Anni Cinquanta comincia a decadere e a entrare in crisi dopo una lunga tradizione (Odda 2013: 1). Il fatto di ripensare audacemente un genere di un altro Paese rischia di creare uno “scontro” fra la tradizione e la rivisitazione: è proprio la stampa americana a coniare l’espressione ‒inizialmente dispregiativa ‒ spaghetti western per definire la versione italiana di questo filone. Leone non ne è l’iniziatore assoluto: Emilio Salgari nei primi del Novecento esplora e ripensa il western dal punto di vista letterario, peraltro negli stessi anni in cui viene composta La fanciulla del West (1910) di Giacomo Puccini, ma lo strepitoso successo sia di critica che al botteghino dei film leoniani rende il regista romano un importante innovatore, nel tempo stimato e riconsiderato dagli americani stessi. In quegli anni, ciò che probabilmente stupisce della produzione di Leone è la creazione di un nuovo immaginario relativo al West, che non gli appartiene storicamente o familiarmente ma lo affascina in senso mitico ed esotico. Come afferma Italo Moscati, “Leone la vede (l’America) con gli occhi di un romantico” (2014: 10).
Da un punto di vista concettuale, l’esotismo è un tema o, meglio, un’idea su cui scrivono diversi intellettuali tra cui Edward Said (1978: 15), il quale, riferendosi all’idea di Oriente formatasi nella mente degli europei nella storia dell’imperialismo, sostiene che essi interpretino i valori e la cultura di Paesi lontani in modo del tutto soggettivato e spesso poco corrispondente alla realtà. Se questo suo studio venisse applicato, questa volta, all’idea di Far West e ai film di Sergio Leone, si noterebbe come il regista abbia rivisitato l’America con costrutti culturali differenti, con gli occhi di un italiano che vive la sua adolescenza nel corso dei complessi anni del fascismo e realizza il suo primo film western nei rivoluzionari Anni Sessanta. Questi aspetti apparentemente irrilevanti possono fornire un’idea di quali influssi culturali, politici e sociali Leone possa trasporre ‒ in modo quasi impercettibile ‒ nei suoi lavori, sebbene nel corso della sua vita egli non ami intavolare dibattiti politici con i giornalisti o partecipare alle proteste e alle manifestazioni di quegli anni.
IL MITO DEL WEST
A ogni modo, il concetto di esotismo inerente al West non appartiene a Leone soltanto in quanto europeo e nato durante il fascismo: anche i registi e gli attori americani rielaborano negli anni precedenti una propria idea mitica del West che unisce momenti memorabili di storia statunitense (ad esempio la lotta contro i nativi americani) a costrutti culturali immaginari e fantastici. Gli americani stessi, inoltre, sviluppano nel corso del tempo un gusto verso i film di carattere mitico-storico: sono diversi i produttori hollywoodiani i quali, una volta sbarcati a Roma, investono i propri dollari nella realizzazione di film mitologici da ambientare a Cinecittà, che, come afferma Italo Moscati, “inventava i suoi cavalli di Troia con produzioni più modeste che piacevano al pubblico d’oltreoceano e attiravano i dollari di un sogno americano affascinato dall’antiquariato romano” (2014: 151). Da questa frase si può dunque evincere come anche gli americani alimentino nel loro immaginario un’Italia dalla storia avvincente, intrisa di vicende storiche e mitologiche spesso legate alla grande storia di Roma. Nel corso degli anni Leone afferma che probabilmente è Omero il primo autore di western: ecco, dunque, che intuisce una comunione tra questo filone americano e l’epica greca.
Sono note al pubblico e ai critici le cosiddette Trilogia del dollaro e Trilogia del tempo, realizzate dal regista romano dal 1964 al 1984 e che scandagliano il West in modi sempre vari e al contempo riconoscibili. In questo senso si rivelano esemplari due film: Il buono, il brutto e il cattivo (1966) e C’era una volta il West (1968). Ciò che li rende emblematici ‒ e diversi tra loro ‒ rispetto alla creazione di un nuovo immaginario dell’Occidente americano è lo studio e la rivisitazione dei soggetti, del concetto di eroe, di narrativa di genere western, delle ambientazioni, degli attori, dei movimenti di macchina, delle musiche, della storia, dei personaggi, della sceneggiatura… Persino dei luoghi in cui vengono realizzate le riprese. Infatti, prima ancora di analizzare approfonditamente i due film, si può riflettere su due aspetti tecnici rilevanti nella cinematografia e tra loro collegati: i contratti di produzione firmati da Sergio Leone e i set delle riprese.
Nei primi Anni Sessanta nascono case di produzione che co-producono film insieme a società straniere, in particolare americane e spagnole: il western italo-spagnolo nasce proprio in quest’occasione, ottenendo un grande successo soprattutto in Italia dopo l’uscita di Per un pugno di dollari (1964) (Odda 2013: 4). Questi contratti di coproduzione tra Italia e Spagna influiscono enormemente sulla scelta dei set: al tempo vengono individuate e messe a disposizione aree spagnole aride e desertiche adatte a ricostruire scenari western, dunque geograficamente distanti dai luoghi originari del Texas e dell’Arizona. Questo aspetto contribuisce al crollo o alla reinterpretazione del western classico americano, in quanto si cerca di ricreare, questa volta in Europa, ambientazioni fittizie e nostalgiche, epiche ed esotiche, evocando uno scenario selvaggio in cui regna l’assenza di regole e di leggi.
I film della Trilogia del dollaro, infatti, vengono girati in Spagna e hanno per protagonista un attore americano poi reso celebre: Clint Eastwood. Coinvolgere attori stranieri, in particolare americani, era una strategia per ottenere maggiore successo e visibilità a livello mondiale.
IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO (1966)
Il buono, il brutto e il cattivo è il terzo film della Trilogia del dollaro, che include Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965). Ironico, sofisticato e truculento, questo film mette in risalto innanzitutto il titolo, che sembra contrapporre e identificare tre personaggi con aggettivi volutamente così semplici e diretti da sembrare vaghi. Infatti i tre iconici protagonisti, rispettivamente il Biondo (Clint Eastwood) ‒ personaggio solitario e quasi muto ‒ Tuco (Eli Wallach) e Sentenza (Lee Van Cleef) non incarnano solamente una di queste caratteristiche, ma si rivelano personaggi complessi, misteriosi e al contempo macchiettistici.
I significati dei termini “buono”, “brutto” e “cattivo” sembrano fondersi e costituire per ognuno di loro una sola feroce identità, che mira a destreggiarsi in un mondo spietato come quello del Far West durante la Guerra di Secessione.
I tre aggettivi del titolo sono emblematici della caratterizzazione di nuovi personaggi del cinema spaghetti western. A differenza dei western americani, in questa trilogia e nello specifico in questo film, i personaggi non sono eroi, sono uomini (Moscati 2014: 225), o meglio anti-eroi. Spinti tutti e tre dalla ricerca di un tesoro, collaborano l’uno con l’altro per poi tradirsi e rispondono alla giustizia per poi sovvertirla. Il contesto della sanguinosa guerra civile tra nordisti e sudisti sembra non suscitare il loro interesse sociale e politico ma al contempo li coinvolge direttamente e in prima persona; l’ironia della trama sta infatti nella contrapposizione tra una delle vicende più rilevanti della storia americana e le qualità infime dei protagonisti, i quali finiscono nell’esercito indifferentemente prima in uno schieramento e poi nell’altro, per poi fuggire e perseguire la scoperta del misterioso tesoro. Secondo Oreste De Fornari, “nell’erotica leoniana il dollaro ha solo un valore d’uso. Non compra terre, bestiame o ragazze, ma forse dispensa piaceri tattili e comunque ispira una mistica perversa” (2018: 61).
Nonostante la voluta approssimazione, “buono”, “brutto e “cattivo” sono aggettivi comunque rinvenibili nei loro rispettivi personaggi, che sembrano suggerire qualche informazione inerente anche al tipo di società descritta da Leone. Come afferma Robert Cumbow: “In effetti, si possono mappare i tre personaggi archetipici del film nei tre esemplari della Vecchia Legge nel mito del Western americano (…). Tutti loro sono elementi forti e titanici della società pre-civilizzata. Il Buono, forse nonostante il suo cinismo, esemplifica una crescente tendenza per la gentilezza verso gli altri (in particolare il funzionario dell’Unione morente e il soldato confederato morente). Il cattivo esibisce un cinismo non redento, un impegno per l’interesse personale non modificato dai valori umani. E il Brutto analizza il terzo gruppo di titani primordiali, il popolo tribale aborigeno, che vive con i propri codici di insularità, lealtà interna e sfiducia nei confronti degli estranei, terzo gruppo neutrale né buono né cattivo ma qualcosa di separato, qualcosa di diverso” (2008: 154).
TRAMA E AMBIENTAZIONE DEL FILM
La trama apparentemente semplice di questo film può in realtà mettere in evidenza il modo di relazionarsi dell’italiano Sergio Leone ‒ che ha undici anni quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale ‒ con uno degli eventi bellici più importanti della storia americana, da lui rappresentato con crudo realismo e al contempo attraverso uno sguardo distaccato, ironico e parodistico. Il suo racconto della guerra è talmente sfaccettato da far passare in secondo piano il tema della Secessione e le sue conseguenze, riducendo la figura dell’essere umano a mero essere abietto.
L’individuazione degli attori e le scelte registiche si rivelano così incisive da imprimere i tre iconici personaggi nella memoria collettiva e lanciare due attori poi rimasti nella storia (Eli Wallach era già conosciuto): Clint Eastwood, in seguito divenuto noto anche come regista, e Lee Van Cleef, che prima di recitare nei film di Leone vive un’importante crisi economica ed esistenziale. Questi attori si rivelano importanti in relazione all’immaginario del West poiché i visi, le pose, i movimenti e l’abbigliamento contribuiscono a formare un’identità visiva così definita da sembrare caricaturale, ed è anche quest’ultimo aspetto a stimolare collettivamente il ricordo dei film leoniani.
Anche la sceneggiatura, scritta da Leone con Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli e Sergio Donati, contribuisce alla creazione dell’immaginario di un West tanto duro quanto ironico. Ad esempio, quando Tuco si vendica con il Biondo costringendolo a passare attraverso il deserto ardente, alla domanda “Dove andiamo?” risponde: “Dove? Dove arriverò solo io. Vedi quanta bella sabbia? Ecco, quello è il deserto, un forno lungo cento miglia; anche alla guerra fa paura passarci, da sinistra passano i confederati, da destra i nordisti, ma qui non ci mette piede nessuno, solo tu”.
È proprio il deserto l’ambientazione protagonista di questo film poiché adatto a ricostruire lo scenario western e a rispecchiare, inoltre, i comportamenti selvaggi dei tre anti-eroi. Negli Anni Sessanta, con i contratti di produzione tra Italia e Spagna viene messa a disposizione delle riprese la regione desertica di Tabernas, nella provincia di Almería in Andalusia. Si tratta di uno stimolo importante per gli scenografi italiani e spagnoli, che, dopo aver appurato la totale mancanza di organizzazione e infrastrutture locali, vi ricostruiscono vere e proprie città del west da adibire a set cinematografici e oggi visitate dai turisti cinefili di tutto il mondo. Al tempo il regista Sergio Corbucci ne viene profondamente colpito: “Vidi che in Spagna c’erano ‘sti cavalli, c’erano ‘ste pianure straordinarie, c’era ‘sto paesaggio che assomigliava molto al Messico o al Texas, o comunque a come noi li immaginavamo. […] tante volte ci trovavano a dire: ‘‘Ma guarda un po’, qui si potrebbe fare un western straordinario’” (cit. in Faldini – Fofi 1979: 286).
Il buono, il brutto e il cattivo viene dunque girato nel west d’Europa, un west visivamente vicino all’Occidente degli Stati Uniti, ma decisamente più semplice ed economico da raggiungere (i western d’altronde erano film a basso costo). Per questo film, Sergio Leone e il suo team – costituito, tra gli altri, dal direttore della fotografia Tonino Delli Colli e dagli scenografi Carlo Simi e Carlo Leva – individuano vari tipi di deserto e di paesaggio arido. Nel corso di questo western si percorrono infatti deserti rocciosi simil-lunari, altri interamente sabbiosi e somiglianti al Sahara, facendo immergere lo spettatore in immagini panoramiche vaste in cui i personaggi diventano infinitesimali, poi alternate a primi piani che evidenziano profondamente le espressioni e i tratti marcati dei volti. Come sostiene Christian Uva: “il ‘dislocamento geografico’ messo in campo dal western italiano è già di per sé un fattore che agisce in tale direzione (una ricognizione del carattere nazionale italiano) se si pensa alla necessità di girare nei brulli scenari dell’Almería spagnola (in particolare nel deserto di Tabernas) o addirittura nei dintorni di Roma; in ambienti e territori, cioè, estremamente congeniali a incarnare una meridionalità rintracciabile anzitutto nella rappresentazione di uno spazio di ‘evacuazione del progresso’ dominato da un fatalismo e da una rassegnazione tipici di una cultura mediterranea (fattore che, a rigore, rende questo genere molto più un ‘southern’ che un western…)” (2019: 163).
Con una miscellanea di influssi meridionali e western, il team di scenografi effettua una ricostruzione minuziosa di alcune ambientazioni per la quale si avvale di materiali poveri. Fin dalla prima scena il paesaggio desertico viene spesso affiancato da baracche in legno scuro e carrozze con ruote in legno e un tendone bianco che si muove nel vento. In altre ambientazioni, come quella del motel nel villaggio di Santa Fe, per gli interni vengono utilizzati mattoni e travi in legno; in altre scene sotto i corpi dei feriti di guerra viene disposta paglia. Quando invece Tuco preme il grilletto della pistola sotto l’acqua della vasca da bagno in legno, alle pareti viene applicata una carta da parati floreale rossa e gialla che evoca un ambiente decadente e remoto. Non mancano le classiche porte dei saloon, minute e lignee.
PERSONAGGI E CONTESTO
L’apice dell’ingegnosità scenografica è però rappresentata dalla ricostruzione del cimitero di Sad Hill nella scena finale, punto cruciale del film poiché è qui che si nasconde il tesoro. Lo scenografo teatrale Carlo Simi idea un esercito visionario di ottomila croci storte in legno costeggiate da pietre e pezzi di terra, paglia e segatura rialzati (le tombe): è qui che avviene la scena del triello – una delle più famose della storia del cinema – tra il Biondo, Tuco e Sentenza. La lunga scena costituita da un alternarsi di primi piani di sguardi tesi, dettagli di una mano priva del dito medio accanto ai proiettili e un paesaggio panoramico avviene sullo sfondo di quest’enorme scenografia funebre, il cui senso di morte non risparmia un ulteriore decesso: Sentenza, dopo essere stato ucciso, scivola direttamente in una fossa. Tuco e il Biondo invece si spartiscono il tesoro, uno con il cappio al collo e i dollari ai piedi, l’altro scappando a cavallo lungo il deserto. Per il cadavere rinvenuto dentro la prima tomba al posto del denaro viene utilizzato il corpo di una donna che, prima di morire, chiede nel testamento di fare un’esperienza di attrice da deceduta (cfr. Verdone 2012).
Rispetto ai western originari, in questo film le ambientazioni risultano dunque semi vuote, con poche figure nonostante il contesto bellico, e ‒ altro aspetto rilevante ‒ prive della presenza numerosa dei saloon e delle figure degli “indiani”. Questa scelta, legata in parte al budget, acuisce la tensione nel film, contrapponendo distese paesaggistiche immense e alienanti a sparatorie dall’intensità cruenta.
Tornando ai personaggi del film, i costumi indossati dagli attori contribuiscono anch’essi a imprimerli nella memoria collettiva: il poncho di Clint Eastwood, lungo, marrone scuro e avvolto sulla sua spalla sinistra, fa intravedere un gilet in pelle rovinata, una camicia celeste e una cintura da cowboy. Ma ciò che lo caratterizza ancora di più è il sigaro, che Leone gli chiede di tenere in bocca senza opporre alcuna resistenza (l’attore non fuma).
LA MUSICA DI MORRICONE
Un’altra questione rilevante ne Il buono, il brutto e il cattivo (e in generale nei film di Leone) è costituita dalla colonna sonora composta da Ennio Morricone: seppur linguaggio astratto e non visivo, essa riesce a ricreare in modo incisivo un immaginario del West. Morricone rinnova il tipo di approccio musicale al genere filmico western: mantiene il sinfonismo orchestrale tipico di quei film unendolo a un linguaggio nuovo che si esprime attraverso l’utilizzo di strumenti e rumori mai usati prima in quel contesto, in maniera così suggestiva da eguagliare la forza delle immagini. Con Morricone la colonna sonora, che gioca con il sacro e il profano, non si limita a fare da cornice contestuale, bensì rafforza, potenzia e innalza spiritualmente il mondo visivo dei film spaghetti western, trasformandoli in cinema d’autore.
Nello specifico caso de Il buono, il brutto e il cattivo, Morricone attribuisce un ruolo di primaria importanza ad esempio all’utilizzo del fischio (il cui confine con il rumore sembra assottigliarsi), al suono dei passi per mezzo dell’uso della percussione, alla chitarra elettrica Anni Sessanta dal suono “sporco”, alla tromba ‒ strumento nel cui studio il compositore è diplomato ‒ e al coro.
L’utilizzo incalzante delle percussioni riecheggia i passi dei tre anti-eroi a cavallo che marciano nel deserto con la pistola in mano; l’uso distorto della chitarra inasprisce le atmosfere crude e pungenti delle ambientazioni e delle vicende; l’uso delle voci evoca visioni, animali misteriosi o indiani, personaggi improvvisi e quasi immateriali; la tromba costituisce il punto di catarsi attraverso parti cantate, incontrando percussioni, chitarra, coro, armonica (che ha un ruolo protagonista nel film successivo) che si affiancano a un organico orchestrale classico.
Morricone e Leone ‒ che si confrontano sempre circa le musiche; lo stesso Leone fornisce stimoli e idee al compositore ‒ intervengono sulla sceneggiatura creando “parole musicate”, ovvero incastrando il tema principale della colonna sonora alle parole. Ne è un esempio la fine del film, quando Tuco, una volta ricevuta la sua parte del tesoro e con il cappio attorno al collo, urla al Biondo: “Sei un figlio di puttana”. Leone e Morricone sovrappongono una breve frase del tema musicale principale alla seconda e terza sillaba della parola “puttana”, creando un gioco di incastri memorabile.
Quanto al rapporto tra la musica originaria del West e la rivisitazione di Morricone, il compositore ripesca strumenti che fanno realmente parte della storia musicale dell’Occidente degli Stati Uniti d’America, quali chitarra e armonica. L’immaginario del West ricostruito da molta cinematografia negli anni che precedono Leone rende talvolta fuorvianti le storie inerenti ai cowboy e alla loro ipotetica vita sfrenata e brutale (in realtà essi badavano al bestiame): lo dimostrano in parte le musiche originarie del Far West che consistono, invece, in malinconici giri di chitarra accompagnati da canti e armonica e concepiti in un contesto silente e cupo (cfr. Barrera 2012).
Il buono, il brutto e il cattivo si conclude dunque con una “parola suonata”: questo aspetto ritorna e costituisce il preludio al film successivo, C’era una volta il West.
C’ERA UNA VOLTA IL WEST (1968)
Con C’era una volta il West prende vita la Trilogia del Tempo, che include Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984), ultimo film realizzato da Sergio Leone.
Rispetto a Il buono, il brutto e il cattivo, distribuito due anni prima, C’era una volta il West evoca un immaginario diverso dell’Occidente degli Stati Uniti, evidenziandone ulteriormente i connotati mitici e leggendari. Ciò è in parte rinvenibile nel titolo del film che incarna un’espressione tipica delle fiabe; Leone unisce, così, la fiaba, il mito e il western, realizzando un’opera cinematografica dal clima meno sfaccettato e ironico del film precedente, e puntando decisamente al dramma.
La passione di Leone per la tragedia, l’epica e il mito determina una scelta precisa del soggetto cinematografico, firmato insieme ai registi Dario Argento e Bernardo Bertolucci: il film è incentrato sull’epopea delle prime ferrovie transcontinentali. Partendo dunque da un argomento di storia americana dell’Ottocento, nello specifico la costruzione di una linea ferroviaria dall’Atlantico al Pacifico, Leone sviscera le vicende e i sentimenti che muovono gli esseri umani dinanzi alla civilizzazione, all’industrializzazione e dunque al progressivo tramonto del selvaggio west. È proprio qui che si assottiglia il confine tra storia e mito: la drammatica rappresentazione della fine del west e del passaggio da territorio brado a urbano crea una miscellanea di elementi epici e documentari.
Come afferma Oreste De Fornari, nel film si crea una spaccatura e un confitto tra “i nomadi avventurieri e i nuovi insediati decisi a costruire e perciò più adatti alla nascente civiltà industriale. Questo darwinismo sociale sembra rinviare alle teorie di Frederick J. Turner sulla frontiera come simbolo della perpetua rinascita della società americana e ai western autunnali che raccontano l’estinzione della razza dei coraggiosi” (2018: 72).
Nella trama del film, una novità è costituita dalla presenza centrale di un personaggio femminile, Jill McBain, interpretata da Claudia Cardinale. La sua figura contribuisce alla creazione di un immaginario mitico e romantico del West nella dura fase di transizione tra selvaggio e urbano poiché incarna il concetto di sopravvivenza in una società attratta e al contempo destabilizzata dal progresso. Il fatto che si tratti di una donna ‒ per la prima volta protagonista in un film di Leone ‒ negli Anni Sessanta fa molto discutere la critica in merito a una sua presunta misoginia del passato; a tal proposito Italo Moscati sostiene che “Leone, accusato di proporre storie mascoline, derideva il modo meccanico in cui il western americano introduceva le donne e diceva che senza questi ruoli i film miglioravano molto” (2014: 267). Spesso si trattava di “ruoli femminili troppo rigidi che finivano per tradire la figura della donna proponendola sempre come bambola da saloon o come moglie imbellettata in borghesissime case di bambola” (2014: 267).
Abituata a un contesto urbano come quello della New Orleans dell’Ottocento (che nel film non compare mai, alimentando il mito della città), Jill McBain giunge dapprima con il treno e poi in carrozza nella cittadina immaginaria di Sweetwater per festeggiare il suo matrimonio con il signor McBain, poco prima ucciso insieme ai figli ‒ a sua insaputa ‒ da Frank, un killer spietato interpretato da Henry Fonda. L’omicidio, motivato dalla volontà di appropriarsi del terreno della vittima destinato alla realizzazione di una parte della ferrovia, rende principale la figura di Fonda nella spietata competizione per l’accaparramento di beni industriali e progetti imprenditoriali epocali. La trama del film dunque ruota intorno al conflitto tra la sopravvivenza di Jill McBain ‒ nonché la rivendicazione dei suoi diritti sui beni del marito defunto ‒ e la prepotenza del killer e di un suo complice, un ricco ferroviere di nome Morton. A tale contesto si accosta misteriosamente la vicenda di Armonica ‒ il soprannome allude allo strumento musicale da lui suonato per comunicare e provocare ‒, personaggio enigmatico interpretato da Charles Bronson e il cui ruolo viene chiarito soltanto alla fine del film con risvolti crudi e drammatici, scontrandosi soprattutto con la figura di Frank. Sono dunque diversi i personaggi che si affiancano nella storia ma che non si incontrano mai tutti insieme (cfr. De Fornari 2018: 73).
VIOLENZA E IRONIA
La spietatezza della trama qui accennata si riflette anche nella sceneggiatura, scritta da Sergio Leone insieme a Sergio Donati. L’apice della violenza viene toccata già all’inizio del film quando Frank, dopo aver ucciso il signor McBain e sua figlia davanti a una tavola imbandita, si ritrova dinanzi il figlio più piccolo. Così, accortosi che il bambino assiste, pochi minuti prima, alla scena dell’omicidio, decide con sguardo algido e impassibile di ucciderlo su suggerimento di un altro bandito: “Di questo che ne facciamo, Frank?” (riferendosi al bambino), e dopo aver risposto “Ora che hai fatto il mio nome…” elimina con un colpo di pistola l’ultimo innocente della stirpe.
Velatamente ironici sono, invece, altri momenti della sceneggiatura, soprattutto nelle scene in cui è presente Armonica. All’inizio del film, dopo aver suonato il suo strumento per diversi minuti nella locanda decadente, il bandito Cheyenne gli chiede con sberleffo: “Sai solo suonare o sai anche sparare?”. La figura di Armonica, infatti, resta nebbiosa anche nella mente degli altri personaggi del film oltreché degli spettatori: nessuno sa chi sia, cosa stia cercando o perché sia spinto a suonare incessantemente il suo strumento a bocca, a cui lui sembra attribuire lo stesso valore di un’arma. Come scrive Robert Cumbow, “l’Uomo con l’armonica raggiunge la massima sicurezza nel fuggire, piuttosto che riaffermare, il dolore della sua vera identità. In questa luce, ancora una volta, Frank è al centro del film. Ha mezzo nome e sventola tra identità e anonimato, proprio mentre cavalca tra il treno di Morton tra Flagstone e Sweetwater e vacilla tra il mondo degli affari e il mondo dell’eroismo mitico” (2008: 261). Mentre Italo Moscati scrive che “il suono del suo strumento cancella la leggenda e mostra il West diventato cuore dei conflitti senza legge, senza regole, senza etica.” (2014: 265). Alcune sue caratteristiche, quali l’anonimato e il mutismo, richiamano vagamente la figura del Biondo (Clint Eastwood) nel film Il buono, il brutto e il cattivo, sebbene meno drammatica e conturbante di quella di Armonica.
La sceneggiatura di quest’opera cinematografica contribuisce alla creazione di un immaginario del West spietato e privo di fiducia verso il genere umano dinanzi all’industrializzazione e agli interessi economici, che acuiscono lo stato brado interiore dei banditi del Far West.
Per quanto riguarda le ambientazioni e il set, C’era una volta il West rappresenta un’importante novità: per la prima volta, grazie a un contratto con la Paramount e ai fondi ottenuti col successo dei film precedenti, Sergio Leone riesce a girare due scene nella Monument Valley negli Stati Uniti, in passato immortalata da registi quali John Ford in vari film tra cui Ombre rosse (1939). Questo risultato dunque fa mantenere solo in parte le strategie scenografiche adoperate nei film della Trilogia del dollaro ‒ le riprese nell’economica Spagna ‒, filmando il territorio brado americano senza più bisogno di ricostruirlo o evocarlo. Una delle scene girate nella Monument Valley, collocata al confine tra Utah e Arizona, riprende il viaggio in carrozza di Jill McBain verso la casa del marito appena morto: le riprese sono panoramiche ed evocano uno spirito epico e romantico che emerge tra le rocce spirituali del deserto americano. Eccetto questa scena e quella del disvelamento finale del segreto di Armonica per mezzo di flashback, i restanti momenti sono girati in Spagna. Vi è dunque una trasposizione spaziale.
SCENOGRAFIA E COLONNA SONORA
Il lavoro scenografico di Carlo Simi è il frutto di una minuziosa ricerca filologica dell’epoca a cui contribuisce il gusto antiquariale di Sergio Leone. Ambientazioni, costumi e oggetti rispecchiano il gusto del tempo, si pensi al vagone privato del ricco Morton sul treno: qui risalta infatti la cura nella ricostruzione di certi dettagli quali passamaneria, broccati e corrimano in ottone (cfr. De Fornari 2018: 122). L’ambiente è evidentemente lussuoso, costituito infatti da argenteria, sedie imbottite, soffitto in capitonné, pareti in legno scuro lucido, lampadario in cristallo. La ricostruzione di questo interno contrasta con l’aridità del deserto che si scorge fuori dal finestrino del treno e che scorre incessantemente mentre si muovono le figure di banditi a cavallo.
Anche la scena dell’omicidio della famiglia McBain contrasta volutamente con la scenografia: i cadaveri vengono distesi sulle tavole imbandite preparate accuratamente per il banchetto nuziale. I tre tavoli e le panche sono realizzati in legno, le tovaglie sono a quadratini bianchi e rossi e vi sono poggiate brocche in vetro e ciotole in ceramica.
La scena in cui la famiglia prepara il banchetto si rende filologicamente esemplare sia dal punto di vista scenografico che dei costumi: sullo sfondo di un ambiente desertico si erge una grande casa in legno che si alterna a riprese del paesaggio e dei personaggi: la ragazza porta trecce raccolte ai lati della testa divise da una riga centrale e indossa un vestito con volant; il padre porta i tipici basettoni e grossi baffi dell’epoca. Dall’abbigliamento si rende evidente lo status economico del signor McBain, che dichiara ai figli la sua imminente ricchezza dovuta alla proprietà del terreno e all’investimento delle ferrovie.
Jill McBain, unica superstite di questa famiglia, ha l’aspetto di una donna che viene, invece, da un contesto cittadino; dai capelli legati cadono ciocche caratterizzate da boccoli, porta un buffo cappello per difendersi dalla calura e un vestito con merletti intorno al collo. All’inizio del film si presenta vestita così alla stazione aspettando che la sua famiglia la venga a prendere, ma viene delusa nel trovare solo altri viaggiatori e qualche indiano d’America. Robert Cumbow sostiene che “i set e i costumi sono ancora solo uno sfondo per la forte sovrastampa del primitivismo parabolico di Leone. La sua messa in scena di raggruppamenti di personaggi contro un limbo di esperienza amorale ‒ o forse pre-morale ‒ non ha assolutamente nulla a che fare con la realtà storica dell’Occidente americano” (2008: 246).
Per quanto riguarda l’immaginario del West ricreato da Leone attraverso i suoni e le musiche, l’inizio di questo film assume un carattere quasi sperimentale: il regista infatti crea un dialogo tra ampie e alienanti distese desertiche e lunghi silenzi sospesi alternati a suoni disturbanti, che rendono la dimensione del West statica e poco avvezza all’azione.
Il confine tra suono, rumore e musica si assottiglia fino a creare una composizione musicale rarefatta e al contempo omogenea. Nella lunga parte iniziale risaltano voci di uccelli cadenzate in modo così regolare da rasentare l’ossessione, passi di un uomo su un pavimento costituito da assi in legno (anche la scenografia contribuisce, quindi, alla creazione di suoni), lo scricchiolio di una vecchia sedia, il movimento del filo di un telegrafo, una mosca disturbante, una goccia d’acqua sul cappello di un bandito, il fischio del treno. Come scrive il critico Paolo Mereghetti, “il lungo prologo muto, con i due pistoleri che aspettano Bronson, e quasi tutte le sequenze d’azione sono dei capolavori di montaggio e di combinazione tra musica e immagine” (2019: 968). Un inizio così lento e per certi versi astratto non lascia presagire la violenza della storia.
Un altro aspetto rilevante è costituito dalla scelta del regista di attribuire un ruolo simbolico all’armonica a bocca, strumento musicale nato nell’Ottocento e associato alla musica country e al Far West. Sfaccettato, ironico o malinconico, questo aerofono, in C’era una volta il West, è intriso di senso tragico e di mistero. La colonna sonora composta da Ennio Morricone conferisce all’armonica un ruolo di protagonista, che sembra contrastare sia a livello visivo che sonoro con le pistole, uniche armi che gli altri personaggi ‒ esclusa Jill McBain ‒posseggono o conoscono per comunicare. Ma la comunicazione per Armonica, uomo dal volto segnato, è tutt’altro che diretta o violenta; il suo strumento è un velo simbolico che allude a una sua ferita interiore e irrisolta: l’omicidio del fratello ad opera di Frank, avvenuto anni prima sotto i suoi occhi. In un flashback, mentre il ragazzo tiene il cappio intorno al collo, Armonica suona disperatamente il suo strumento, su cui tatua la memoria del trauma e il desiderio di vendetta sull’assassino.
Le musiche di Morricone, che mantengono l’organico orchestrale classico, raggiungono l’apice della catarsi proprio quando Armonica si trova dinanzi a Frank ‒ “a tu per tu” ‒ e con volto solenne torna indietro nel tempo svelando il trauma. Solo dopo aver riconosciuto Armonica ed essersi ricordato dell’omicidio commesso anni prima, Frank scopre il ruolo simbolico del suo strumento musicale. “Suona qualcosa, fratello”, gli chiede con sberleffo anni prima, mentre il fratello viene impiccato. Nel frattempo risuonano una chitarra distorta, archi, ottoni, percussione e coro con solenne sontuosità e senso tragico.
Altri strumenti rilevanti nella colonna sonora ‒ sebbene non protagonisti ‒ sono il clavicembalo e il banjo, tipico strumento musicale afroamericano cui Morricone attribuisce uno spiccato e ironico senso ritmico, che contrasta con certi momenti di tensione del film che spesso vedono in primo piano Armonica, Cheyenne o Jill.
Dunque gli strumenti musicali legati alla tradizione americana vengono qui rivestiti di significato romantico: anche questo aspetto si rivela determinante nella costruzione di un immaginario del West, per il quale Leone ricorre a simboli raffinati e criptici per raccontare con senso nostalgico l’intimità del dolore psichico sullo sfondo di un pezzo di storia americana legata al progresso della civiltà.
CONCLUSIONI
Il buono, il brutto e il cattivo e C’era una volta il West si rivelano film esemplari non solo della rivisitazione leoniana del genere western, ma più in generale dello sguardo visionario e immaginativo di un regista italiano rivolto a una terra a lui sconosciuta empiricamente. Nel corso degli anni Sergio Leone non si limita allo studio della storia americana o dei film statunitensi: gli influssi culturali che accompagnano la sua vita fin dall’infanzia ‒ la guerra, la passione per l’epica, la vita in Europa, in particolare a Roma, la conoscenza del meridione, l’amore per le pellicole proibite durante il fascismo ‒ lo spingono a travalicare il nozionismo e la pura filologia per interpretare il genere western con il suo sguardo e il suo vissuto.
Diversi e sfaccettati, i film analizzati in questo saggio costituiscono inoltre un esempio di come il cinema italiano fuoriesca da narrazioni che guardano alla propria storia, per volgere invece uno sguardo al più ampio Occidente e a dinamiche insite al cinema stesso, che spaziano dalla rivisitazione di un genere cinematografico alle collaborazioni internazionali (ne sono un esempio, nella sua vita, soggetti come la Paramount, Clint Eastwood e la Monument Valley).
Negli anni Leone non distoglie mai l’attenzione dagli Stati Uniti, neanche alla fine della sua vita, quando decide di abbandonare il genere western per avvicinarsi al gangster movie con C’era una volta in America (1984).
Rispecchiando il pensiero di Edward W. Said, nel corso del tempo Leone forgia la sua America, frutto della sua volontà e rappresentazione.
‒ Marta Sollima
BIBLIOGRAFIA
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FALDINI, FRANCA – FOFI, GOFFREDO, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1979
MEREGHETTI, PAOLO, Il Mereghetti Dizionario dei Film 2019, Baldini+Castoldi, Milano 2019
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ODDA, VALENTINA, Ad ovest dello spaghetti western. L’asse Italia-Spagna nelle coproduzioni western all’italiana, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2013
SAID, EDWARD W., L’Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1978
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SITOGRAFIA
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VERDONE, CARLO, Verdone racconta Leone, 2012,
Saggio elaborato nell’ambito del corso di Critical Writing II, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020
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