Le sorelle Macaluso. Emma Dante e il cinema della crudeltà. L’opinione di Helga Marsala
Amore e morte, nella disperata vicenda familiare di cinque sorelle palermitane, raccontate dall’infanzia alla vecchiaia, in una estrema sintesi narrativa e in un profluvio di dettagli, oggetti, metafore. Un film affascinante, non facile, coraggioso, accolto con favore a Venezia.
Indugia, l’occhio di Emma Dante (Palermo, 1967), sulle stanze vuote di casa Macaluso, sul soggiorno in cui echeggiano le voci delle bambine, appena fiondatesi per strada, sulla decorazione leziosa di una consolle anni ‘60, sul bagno lasciato in disordine e sul grande magazzino-piccionaia: qui gli uccelli banchettano intorno a un piatto di porcellana, zeppo di mangime, mentre la musica di Satie si leva mesta, suonata da un sinistro carillon a guisa di clown. E sono centinaia i piccioni viaggiatori, liberi di andare e di tornare, allevati in quello stanzone per tirare a campare. Cliché familiari, nostalgie popolari, dettagli che sembrano anticipare una dolce ballata sentimentale.
Sono andate al mare, le bambine, e la casa resta lì, muta, ad attendere e custodire, a fungere da guscio e da prigione. La regista siciliana si soffermerà più volte sugli ambienti disabitati, dando a tratti la sensazione di una certa gratuità ossessiva, di un certo insistere compiaciuto, slegato dalla scrittura filmica, dal senso, dal ritmo necessario. Così pare; così, alla fine, non è. E così l’intravista dolcezza si rivelerà, al contrario, ferocia.
UN FILM SUL CONFINE. FRA CINEMA E TEATRO
“Le sorelle Macaluso” – tratto dall’omonima pièce teatrale, premio Ubu nel 2014 come miglior regia e miglior spettacolo – è un film forse imperfetto, irregolare, discontinuo, in certi passaggi lento. E peró, potentissimo. Sottile, quanto rara, l’intelligenza dell’imperfezione. E allora la lentezza non pesa e non annoia, nella densità di particolari e di intuizioni, se con un cambio repentino di prospettiva ci si sposta dall’idea di cinema-cinema a un diverso cinema-teatro, mischiato alle arti visive e alla poesia. È un’opera piena di opere. È un lavoro condotto sul confine tra linguaggi – niente di più difficile – e le eventuali ‘pecche’ si bilanciano nell’incisività letteraria e nella prepotenza con cui la dimensione scenica s’impone (la casa-palco, il rito, gli oggetti di scena, la musica, i gesti attoriali). La quantità e la qualità di metafore, di simboli, di immagini come minime icone quotidiane, di sottigliezze liriche e di crudezze esistenziali, ne fanno una piccola tragedia contemporanea, che commuove, sconquassa, seduce. E là dove lascia maglie aperte o volontari buchi, è in fondo una consolazione: non tutto sappiamo, non tutto sapremo, ma la scrittura (come l’animo umano) ci chiede di continuare a cercare.
Una storia come tante, che si fa indagine universale intorno al dolore, tra la ferita come chiave ossessiva, l’amore come vincolo, la morte come orizzonte e la vita come incontenibile fame. Prima attrice, la casa. Tenera, crudele, nel mezzo di un teatro artaudiano. Cinema della crudeltà, più vero del vero. Casa Macaluso è protagonista in carne, ossa e sagome annerite sui muri; è corpo esploso, illogico e vivo, di sangue e di memorie, spiato come un cadavere nel corso di una dissezione; è forma e misura di tutte le cose, se tutto è legame, e quindi rottura, e infine perversione. Ancora una volta lo sguardo di Emma Dante sull’esistenza è riflessione su una sicilianità come ineluttabile destino, come tragedia e mito, grecità, sacro e profano, luce e lutto, pensiero incarnato e sentimento del mondo. Eccedente, eccessivo.
CINQUE SORELLE IN CERCA D’AUTORE
Film-spettacolo in tre atti, “Le sorelle Macaluso” scandisce tre fasi della vita, sintetizzate all’estremo lungo la linea del tempo, preferendo al dettagliato affresco narrativo la simbolica tripartizione di un destino che, dall’alto e a posteriori, rivela la sua logica severa. Tre età, per cinque sorelle-ragazzine che allevano piccioni, orfane probabilmente, adulte troppo presto, protette e soffocate da un grande appartamento – archivio progressivo di cimeli affettivi e di nevrosi – in cui l’immagine dei genitori è assenza che non fa rumore, traccia in bianco e nero fra un vetro e una cornice.
Sono Maria, adolescente, persa tra passi di danza e la scoperta di un amore, nella brezza di un’estate mai finita; Pinuccia, bella, sanguigna, scolpita nel vinaccio del rossetto e nella femminilità focosa; Lia, timida, aggressiva, incollata ai libri come unica strategia di sopravvivenza; Katia, mite, paffuta, concreta, rassegnata negli anni a una vita mediocre e a un marito che non ne avrà stima; Antonella, la piccola di casa, vittima sacrificale di un gioco luttuoso, per tutto il film tramutata in fantasma, apparizione, presenza fissa e tenerezza perduta. Cinque identità in costruzione, cinque accumulatrici di ricordi stipati tra cassetti e armadi mai sgombrati, mentre l’occhio del cinema raccoglie i pezzi e li trasforma in racconto morale, in avventura estetica, in pagina visionaria.
DELLA MORTE, DELL’AMORE
Di eros e thanatos trabocca il film, nelle molte declinazioni possibili, inclusa la follia che ne è sintesi convulsiva. Follia messa a fuoco come lucidità storta, rotta, sofferta; amore che è vincolo perenne, seduzione, scintilla vitale; morte che è definitiva liberazione, possibilità d’infinito oltre il peso del dolore.
L’unico corpo esangue che vedremo, non a caso, è quello di Lia, la sorella matta, col suo peccato originale tatuato addosso, il suo stigma da prigioniera, la sua ossessione silenziosa: il ricordo della sorellina, venuta a mancare per una colpevole leggerezza durante una gita al mare, è il fardello di cui liberarsi, quando leggere milioni di libri non basta più, quando zittire la coscienza è l’unica cosa da fare, quando si è prossimi alla fine e la pena è scontata, lungo la vita intera.
Lia – che sul set ha il volto cupo e la fisicità nervosa dell’intensa Serena Barone, nota attrice di teatro palermitana – è ingenuamente responsabile dell’incidente intorno a cui tutto ruota e che tutto avrebbe ammuffito, strappato, condannato: alla morte di Antonella – interpretata con grazia e misura dall’esordiente Viola Pusateri – non assisteremo, come niente sapremo di quella di Maria (una magnetica Simona Malato), colpita in età adulta da un tumore.
Sarà invece concessa allo sguardo la salma di Lia. Lei, unicamente lei, vedremo esangue. Ormai vecchia e sola, sepolta in quella casa-relitto, è intenta a rammendarsi l’abito buono e a spazzolare le scarpe bianche dell’ultima scena: il corredo che indosserà dopo il probabile gesto suicida, appena intuibile, nemmeno sussurrato. È distesa, Lia, in uno scorcio frontale che unisce Mantegna e Serrano, ieratica, luminosa, vestita a festa e immortalata in uno scatto esemplare: il mare alle spalle e i piccioni intorno – sempre loro, messaggeri di levità -, incorniciata da una finestra aperta sull’azzurro, la stessa da cui avrebbero fatto passare la bara per mezzo di un carrello elevatore; proprio come quei mobili di cui Pinuccia e Katia si sarebbero disfatte, da lì a poche ore, prima del trasloco che spegnerà i riflettori.
E proprio da una di quelle finestre, a voler ricucire l’inizio con la fine, gli uccelli avevano preso il volo, sulle note di un mistico “Inverno” intonato da Battiato, nell’incipit estivo delle sorelle-bambine in marcia verso Mondello. Una casa vuota, uno stormo in fuga e la morte innocente che a breve arriverà.
PICCOLE CREATURE SELVATICHE
Non vedremo dunque il cadavere di Maria, non conosceremo le stanze, le carte, i tempi e i modi della sua storia. La cronaca non conta, i simboli sì. La vedremo allora in una delle scene più forti e teatrali del film. Una sera, indossato il tutù striminzito di adolescente, Maria parla alle sorelle della malattia che la divora. Poi, inizia lei a divorare i dolci apparecchiati sul vassoio. Abbuffata barocca, grottesca, surreale, sessuale. A tutta la felicità perduta, negli anni della disillusione e della resa, e a tutta la vita residua che il cancro seppellirà, la pallida e ossuta Maria risponde ingurgitando una massa informe di zucchero, desiderio e disperazione.
Altrettanta violenza in due momenti cruciali: lo scontro straziante tra Pinuccia (una radiosa Antonella Finocchiaro) e Lia quarantenni, avvinghiate nel rancore, in cui la corporeità radicale del teatro di Emma Dante esplode in pieno; e il sezionamento di cadaveri di animali, con tanto di asportazione di un cuore di cerbiatto, dentro al laboratorio di tassidermia in cui Maria lavora, ripulendo i tavoli autoptici dal sangue e le interiora. Di nuovo ferite, di nuovo la morte in azione fin dentro la vita. L’eco del sacro, nel sacrificio occulto dei mattatoi, incontra la chirurgia del bisturi e il taglio clinico sulle carcasse, con possibili rimandi al grande cinema, alla letteratura, alla fotografia: dagli storici esperimenti di Bataille–Lotar ai celebri scatti di Mario Giacomelli, dall’occhio bovino trafitto ne “Un chien andalou” di Dalì–Bunuel al bue macellato del primo lungometraggio di Ėjzenštejn.
E le bestie tornano, e tornano, come fossero “Piccole persone”, nuclei di amore brado e metafore ancestrali, tra gli onnipresenti piccioni e il brano di Anna Maria Ortese declamato in chiusura. Piccoli animali selvatici anche loro, Maria, Pinuccia, Katia, Lia, Antonella, così indifese, così esposte alla gioia fugace e a un male senza riscatto, senza tregua. Sole, di fronte all’epica cruda di un qualunque fallimento familiare, di un comune naufragio esistenziale. Distillato di poesia a misura di palco e di macchina da presa, potente, irregolare, tragicamente reale.
– Helga Marsala
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