Il documentario di Maria Arena sullo sfruttamento delle donne nella nostra società
Si intitola “Il terribile inganno” il documentario che Maria Arena ha dedicato al ruolo della donna all’interno della società contemporanea e non solo. L’abbiamo intervistata.
Trae spunto da Non Una di Meno, il movimento nato in Argentina nel 2015 per dare voce alle donne, il film documentario della regista catanese Maria Arena. Una riflessione su stereotipi e prevaricazioni tutt’altro che superati, in Italia e nel mondo.
Il tuo ultimo film documentario ha un titolo deciso ‒ Il terribile inganno ‒, che sembra un atto d’accusa. In cosa consiste questo inganno?
Più che un atto di accusa è una presa di coscienza sorprendente che mi chiama in causa. Non mi sento una donna vittima del patriarcato, l’ennesima, lo è stata sicuramente mia madre, che ha lottato per la sua libertà e autodeterminazione. Io pensavo di essere oltre perché ho potuto scegliere il percorso di studi, il lavoro che mi piaceva e l’uomo che amavo, per mia madre non è stato così, lei è stata cresciuta per sposarsi e occuparsi della casa e dei figli. Nel tempo però mi sono resa conto di essere inconsapevole del fatto che la cultura patriarcale è profondamente introiettata da uomini e donne e che determina le vite delle donne anche meno platealmente e più subdolamente. Inoltre la vera condizione della donna è nascosta da tanta retorica e da ignoranza e superficialità. La responsabilità è della cultura e società patriarcale in cui viviamo, certo, ma la società è fatta da singole persone, così ho deciso per un cambiamento in cui l’autodeterminazione avesse ancora valore nella mia vita. Se fossimo nel Medioevo sarei una strega!
Nel film fai una serie di schizzi, quasi un ritratto in divenire, del movimento sorto in Sudamerica Non Una di Meno, un movimento che si è subito propagato altrove. Come nasce questa esigenza di testimoniare e di farne pure parte?
In Italia il movimento, nato in Argentina nel marzo del 2015, si attiva nel novembre del 2016 in occasione della Giornata mondiale contro la violenza di genere. L’8 marzo del 2017 Non Una di Meno Italia aderisce allo sciopero globale delle donne, ‘sciopero produttivo e riproduttivo’, non una festa della donna ma uno sciopero in ogni città.
Nonostante fossi una donna emancipata e conoscessi le conquiste del femminismo degli Anni Sessanta e Settanta, non sono mai stata una attivista e non conoscevo il termine ‘sciopero riproduttivo’. Io non ho mai amato molto la festa della donna, c’era mia madre che ogni anno mi faceva gli auguri o i fidanzati mi regalavano le mimose, mentre io non capivo perché le donne festeggiassero la fine di una oppressione tra loro stesse, non capivo perché non fosse tutta la società a festeggiare un cambiamento epocale, il passaggio a un livello successivo di consapevolezza verso una forma migliore di cittadinanza per tutti e tutte.
Quindi cosa hai fatto?
Ho fatto una mappatura, un viaggio in Italia come quello di Pasolini in Comizi d’amore, ma sul tema della violenza di genere, e in questo viaggio ho scoperto che il patriarcato è profondamente radicato anche al nord. La Lombardia ad esempio è in Italia la regione al primo posto per il maggior numero di ginecologi obiettori di coscienza in barba alla 194!
Chi fa la storia? Il mio riferimento è Alberto Grifi. L’importanza della documentazione storica del movimento Non Una di Meno mi ha dato l’energia e la determinazione per dedicare molto del mio tempo per quattro anni al movimento. Il mio archivio, il materiale girato che c’è dietro al film, della durata di un’ora e 45 minuti, è di circa 100 ore, ha un valore storico ed è a disposizione di chi volesse approfondire.
FEMMINISMO E CULTURA
Il tuo documentario affronta la questione delle lotte sociali femministe, ma da un diverso punto di vista, estraneo alle forme tradizionali di lotte spesso dirette dall’alto; per certi aspetti il tuo documento rimette in gioco gli elementi positivi del movimento di base teorizzato da Rosa Luxemburg, per la quale l’antagonismo sorge sempre da reali condizioni storiche di oppressione, non da astratte teorie o da decisioni da “comitato centrale”.
Non Una di Meno è un movimento e non un partito, inoltre negli anni durante i quali ho registrato non voleva rapporti con le istituzioni ma con le donne direttamente. Questa lotta femminista propone pratiche nelle quali i laboratori, oltre che i tavoli di lavoro, sono importanti. Inoltre fondamentale è lo stare insieme, fare gruppi di ricerca e di lavoro, essere presenti a difendere i diritti e denunciare abusi, essere disponibili ad accogliere altre donne e problematiche, far sentire la voce delle donne che non parlano e farsi vedere per strada per dire alle donne “non sei sola, il tuo problema ci appartiene, puoi anche cambiarla la tua vita”. Attivismo è questo: in assemblea si è dibattuto in merito alla necessità di tempo per elaborare, in mezzo alle tante cose da fare, ossia presidi, manifestazioni, assemblee… Questo è il punto fragile dell’attivismo: le cose che si fanno aumentano perché sono tanti i luoghi dove essere presenti e spesso resta poco tempo per la rielaborazione.
A un certo punto del documentario rendi omaggio a scrittrici e filosofe.
Sì, ma è più di un omaggio, è una lezioncina per il Ministero dell’istruzione! Perché pochissime persone conoscono Olympe de Gouges o Mary Wollstonecraft e le rispettive dichiarazioni dei diritti del 1791 e del 1792? Mi pare piuttosto strano. Perché devo saperlo all’età di 40 anni e da una femminista che i diritti le donne li chiedono e lottano da secoli, non dall’altro ieri? Perché non si aggiornano i libri di storia? È solo la punta dell’iceberg di una terribile censura. Non è possibile che in un Paese che si indigna per le donne di Kabul contro i talebani si eserciti una così grave censura che è responsabile e nutre la violenza di genere. Così la libertà che ci viene spacciata, l’emancipazione della donna, assomiglia sempre a quella degli Anni Ottanta espressa in TV da Colpogrosso! Finché le bambine e i bambini si nutriranno di stereotipi di genere ‒ la mamma cucina mentre papà torna dal lavoro; la Barbie alle bambine e la macchinina ai bambini; la storia piena di uomini valorosi e concubine, mai una scienziata, musicista, ricercatrice che riesca a entrare nei libri se non come lettura di approfondimento ‒, la società non cambierà. È uno scandalo e un terribile inganno!
DONNE E IDENTITÀ
Una domanda accompagna tutto il film: che cos’è una donna, non per un uomo, ma per la donna stessa? In un celebre testo (Sproni. Gli stili di Nietzsche), Derrida poneva la questione dell’equivalenza tra donna e verità, e affermava che questa identità era una rappresentazione della metafisica (maschile), mentre la Donna – dice ancora Derrida – in realtà “non si lascia prendere”. Il divenire donna sarebbe un’uscita dalla metafisica maschilista. È così?
Potremmo dire, per restare in ambito metafisico, che la donna è l’essere, appunto, inafferrabile, indefinibile, ma fondante in quanto origine della vita. Che poi è ciò che per secoli era stata, prima dell’avvento delle religioni monoteiste e forse ancora prima. Ma usciamo dalla metafisica. Esplorare altro, studiare anche le filosofe e non solo la metafisica maschilista mi sarebbe molto piaciuto all’università, sono laureata in filosofia ma allora non mi ponevo questo problema perché seguivo il pensiero dominante, non avevo una mia coscienza critica, mi sembrava che l’arte e il sapere non avessero sesso, poi però le percentuali di presenze femminili scandalosamente basse mi insospettirono, che significa? Non c’è accesso al sapere delle donne, e di contro il sapere degli uomini è ‘naturalmente’ per tutti e tutte. C’è identità e differenza tra i due sessi come il simbolo dello Yin e dello Yang, invece il maschilismo è verticistico come la cupola mafiosa. Questo tipo di potere non è desiderato in una prospettiva genuinamente femminista, l’obiettivo e sovvertire l’ordine patriarcale, non prendere il potere. La donna è il divenire e il divenire non è fatto da opposizioni cartesiane ma dai misteri del panta rei, o di Zaratustra, è ciclico e circolare, non lineare.
C’è un altro aspetto che il tuo documentario sottolinea: è la questione del gruppo, insomma è ciò che la filosofa Judith Butler afferma con l’espressione l’alleanza dei corpi; in questa alleanza la soggettività rifiuta ogni a-priori identitario, fino al punto di essere anche un luogo aperto per la questione dell’identità di genere.
Il sé, le emozioni del soggetto, le storie individuali, il meticciato, i corpi che si alleano per le strade, la creazione di una cittadinanza ove ci sia collaborazione tra cittadine e cittadini per una vita migliore, l’attenzione per la natura di cui noi siamo parte. Mi interessa sapere di più del confederalismo democratico del Rojava, e non a caso lì le donne stanno facendo un grande lavoro di rilettura storica da una prospettiva femminista che si esprime attraverso Jineoloji, ‘la scienza delle donne’ che critica l’egemonia dell’uomo nella storia e afferma l’occultamento della donna nella storia. Svelare il terribile inganno.
‒ Marcello Faletra
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