Venezia 78: The Card Counter di Paul Schrader
Il cinema di Paul Schrader approda a Venezia nell'ambito della Mostra Internazionale del Cinema. Ecco com'è il film del regista amato da Martin Scorsese
Partiamo da un presupposto: per apprezzare pienamente il cinema di Paul Schrader bisogna essere sulla sua lunghezza d’onda. Esistono il Bene e il Male, due grandezze che oltrepassano l’essere umano, ma tra cui quest’ultimo si dibatte, nella speranza di salvarsi. C’è un contesto storico e culturale, gli anni Settanta (compresa la seconda metà dei Sessanta) e la New Hollywood, dentro il quale il nostro autore si è formato, ovvero quella giovinezza in cui ha posto le basi, come ognuno di noi, per l’uomo che sarebbe diventato. E poi c’è un cinema, c’è la ricerca di quel “trascendente” nel cinema, che lo ha accompagnato per tutta la vita. Ozu, Dreyer ma soprattutto Bresson, quest’ultimo è il modello e la “riserva” dei temi che Schrader continua ad affrontare, con una sensibilità diversa naturalmente, con la ribellione della cultura rock alle spalle. Un tavolo verde, la luminescenza dell’azzardo e un uomo perduto. Un uomo americano, la cui vita è un perpetuo cammino. Il colore dei soldi, Casinò, Taxi Driver: ecco che arriviamo ai punti di contatto con Martin Scorsese, che in The Card Counter, in concorso a Venezia 78, si ritaglia il ruolo di produttore esecutivo.
UN CINEMA CHE SI FONDA SULLA SCRITTURA
Potremmo dire che Schrader ha continuato a fare sempre lo stesso cinema. O meglio, a raccontare le stesse storie, che si fondano sulla scrittura, sul suo modo di intenderla: dalla sceneggiatura, che a settantacinque anni padroneggia con un controllo e una consapevolezza della propria personalità che mettono quasi in soggezione, pur portando a risultati talvolta prevedibili, all’ossessione per la forma narrativa del diario (anche in questo caso non dimentichiamo Diario di un curato di campagna di Robert Bresson) che, nel suo mondo e sistema di valori, rappresenta un’alternativa alla confessione, dove il parlare con se stessi non ha come fine la memoria, il ricordo, né lo scandaglio del profondo della prassi psicoanalitica, bensì significa conversare con Dio, dichiarare i propri peccati per chiedere perdono e attendere un’assoluzione (a questo proposito si può aprire un’obiezione sulla possibilità di conversare direttamente con Dio, che non solo è un’idea moderna, ma anche protestante, in quanto prevede l’eliminazione della mediazione sia di Cristo sia della Chiesa, che però è proprio il background nel quale si muove Schrader).
UNA STORIA DI REDENZIONE
In The Card Counter Oscar Isaac è William Tell, un giocatore di poker solitario e randagio, che passa di casinò in casinò, non per cercare fortuna, ma per il piacere del gioco (non nella direzione di Dostoevskij) ed è così bravo che ha imparato a contare le carte. È taciturno e non ama attirare l’attenzione. Vive in motel che impacchetta come fossero opere di Christo, la sua quotidianità è estremamente disciplinata. Più che un abito indossa una divisa, che ricorda quella di un prete o di un prigioniero. Che cosa nasconde? È la prima domanda che passa per la mente dopo queste premesse ed è anche il tarlo di La Linda, la donna che lo adesca, di cui alla fine si innamora ma che soprattutto cerca di portarlo sulla strada del successo. Avere uno sponsor, vincere di più, i soldi sono il fine dell’azzardo per La Linda, ma non per Will. All’orizzonte si profila un terzo personaggio, il giovane Cirk, forse quello meno caratterizzato, importante per scoprire il passato del protagonista e anche la chiave della sua redenzione, in pieno stile schraderiano (si ricordi la prostituta bambina di Taxi Driver). Un passaggio obbligato per salvarsi sembra infatti iniziare a salvare qualcun altro, fermarlo prima di deragliare. E lo sbaglio di Cirk si chiama vendetta. Vuole uccidere l’uomo che è stato la causa di tutti gli errori di suo padre, nella vita e con la famiglia, coinvolto, come lo stesso Will, nelle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib.
UN FILM PARZIALMENTE RIUSCITO
Questa rivelazione cambia la direzione della storia, rendendola allo stesso tempo più schematica. Del resto Schrader ha alcune ossessioni e personaggi tipici, e anche una o alcune strutture narrative ricorrenti. Ne consegue una circolarità piuttosto attesa e una redenzione che, come già in passato, non può prescindere dalla violenza e, questa volta, dalla punizione che il protagonista si auto- infligge e accetta in nome dell’espiazione. Se dal punto di vista della regia la combinazione tra minimalismo austero (mutuato da Bresson e Ozu), fatta eccezione per la sequenza nel giardino di luminarie con La Linda, e flashback con fish-eye, death metal, uomini nudi e sporchi (probabilmente ricoperti di escrementi), risulta affascinante come scelta stilistica per distinguere il presente del protagonista, un vero e proprio Purgatorio, dall’immaginario infernale dei ricordi, empatizziamo poco con quanto accade sullo schermo. Perché manca tutto. Mancano i travagli interiori che hanno spinto Schrader a scrivere un film come Taxi Driver, mancano le emozioni più vere e viscerali che la scrittura sa captare, manca lo spirito del tempo, che porta a produrre opere
imperfette ma capaci di entrare in consonanza con un vasto pubblico, manca la capacità di
interpretare in chiave contemporanea il nuovo Millennio, fatti e accadimenti che hanno segnato la Storia americana a partire dall’11 settembre e non dagli anni Settanta.
–Carlotta Petracci
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati