Austin di Dickinson si racconta: intervista a Adrian Blake Enscoe
I fantasmi del passato, il conflitto interiore, l’omosessualità, il patriarcato, il ruolo del padre e del capofamiglia: i temi della terza stagione di Dickinson, in onda su AppleTv+, raccontati da uno dei personaggi principali della serie
Siamo giunti alla terza e ultima stagione di Dickinson, la serie creata da Alena Smith, che ha proposto una rilettura in chiave generazione Z della celebre poetessa americana e delle sue relazioni con la società, la famiglia, l’omosessualità. In occasione dell’uscita su AppleTv+ abbiamo intervistato Adrian Blake Enscoe, cercando di approfondire il personaggio di Austin, il fratello di Emily, che in questa stagione occupa maggiore spazio e presenta un interessante arco di trasformazione. Ecco cosa ci ha raccontato.
Parliamo di Austin, il tuo personaggio in Dickinson. Nella terza stagione lo troviamo cambiato, più conflittuale e infantile. Perché pensi accada?
Penso che Austin sia costretto ad affrontare un trauma, che riguarda il modo in cui è stato cresciuto. È come se provasse a scalare una montagna, ma senza nessuna mappa che lo guidi nel percorso, quindi procede disordinatamente. Si rifugia in una dimensione più infantile, non solo per sottrarsi alle sue responsabilità, ma anche perché deve tornare all’infanzia per comprendere che cosa gli sia accaduto e riprendere in mano la propria vita. È stato cresciuto da un padre severo, che ha dato alla famiglia una forte impronta patriarcale, riponendo in lui molte aspettative. Tutte le volte che le ha disattese il padre ha provato delusione e vergogna per lui. Austin nella terza stagione si confronta con questi sentimenti. Come attore l’evoluzione di questo personaggio, il tentativo di comprenderlo, mi hanno spinto a sondare luoghi veramente oscuri del mio animo. Sono molto fiero di lui e ho provato a fare lo stesso anche nella mia vita. In fondo sono un uomo bianco, cresciuto in un sistema culturale dove vigono la supremazia bianca e il patriarcato. Stiamo ancora tutti affrontando, seppure in un contesto più moderno e contemporaneo, ciò con cui si è dovuto misurare Austin. Credo sia stata un’esplorazione molto fruttuosa.
Quanto delle tue esperienze ed emozioni, di te stesso, è finito in questo personaggio?
Sono convinto di essere stato molto fortunato per come sono cresciuto e sono stato educato. Mi sono sentito spesso come un principino e ho cercato di traslarlo in Austin, che è il primo figlio, l’unico maschio e che per questo è stato messo dalla famiglia su un piedistallo. Una condizione che può essere gratificante ma che spinge a farsi delle domande (“Perché?”) e che, quando decidiamo di sbarazzarcene per cercare la nostra strada, può rivelarsi molto dura da sostenere. La pressione e il bisogno di essere sempre considerato il migliore, l’invidia provata nei confronti di Emily, che sboccia, risplende, si libera e diventa anche più comprensiva nei confronti della famiglia. Austin teme il risentimento che prova, ma sono convinto provenga dall’amore. Vuole contribuire a rendere il mondo un posto migliore, anche se deve trovare gli strumenti da solo per questa trasformazione, perché non gli sono stati dati e insegnati.
Hai sottolineato quanto sia diverso da suo padre. Che uomo vuole diventare?
Già nell’episodio 1 cogliamo il desiderio di Austin di avventurarsi, di crearsi un’identità separata dall’essere semplicemente “il figlio di suo padre”, con tutte le aspettative che ne conseguono: lavorare con lui, portare avanti il nome dei Dickinson alla stessa maniera. Non gli è mai stato concesso di conoscere o anche solo di affermare i propri interessi. Anche quando se ne va con Sue, c’è qualcosa che lo trattiene e lo riporta nella città in cui è nato. Un sentimento contraddittorio, da un lato vuole renderla un luogo migliore, più civile, dall’altro cova un grande risentimento nei confronti del padre ed è deciso a dimostrarglielo.
La relazione con Sue subisce una grande trasformazione, passando dall’amore all’amicizia. È così?
Sì, lo penso anche io. È interessante notare come evolve l’amore nella mente di Austin lungo il corso della serie. Nella prima stagione lui lo confonde col possesso, vede in Sue l’oggetto luminescente che vuole al suo fianco, non la capisce e ciò la rende più esotica. Questo è il modo in cui spesso in un sistema capitalista si interpreta l’amore. Ma non è molto sano per portare avanti una relazione, se si vuole essere pari col proprio partner. Questo è lo sforzo che viene messo in scena nella terza stagione. Austin e Sue devono accettare di avere una partnership. Attraverso la comprensione di questa condizione devono trovare un modo per farla funzionare per entrambi. E credo che ci riescano ed è per questo che è la mia preferita. Trovano una via alternativa al matrimonio tradizionale quando realmente si accettano l’un l’altra. È così che un matrimonio dovrebbe essere, anche se questo non è basato sul romanticismo.
E la relazione con Emily?
Siamo agli opposti.
È molto complicata, lui la stima ma allo stesso tempo è un avversario in amore. Non deve essere semplice per un uomo in quel contesto storico…
Ciò che è interessante di quel contesto è che la parola gay, e il tipo di relazione a cui fa riferimento, non è ancora entrata nel lessico comune. L’omosessualità è ancora assimilata al non avere una identità. La prima stagione ha posto le basi per un’evoluzione, quando Emily e Sue si baciano non sembra così strano perché sono migliori amiche; nella terza stagione diventa evidente che Austin non è l’amore della vita di Sue, non è al centro dei suoi pensieri, lei è interessata a lui come potrebbe esserlo a un fratello. Allo stesso tempo sono convinto che Austin e Emily esistano, come relazione, al di fuori del triangolo con Sue, devono però trovare un modo per connettersi. Sono spesso opposti da un punto di vista ideologico: mentre Emily cerca di tenere insieme la famiglia, Austin tenta di mandarla in frantumi. Certe volte le forze opposte nella vita sono necessarie, ti insegnano come andare avanti. Emily è sicuramente la forza che si oppone a Austin in questa stagione, che lo riporta con i piedi per terra.
È un’antagonista. Lo aiuta a crescere e a confrontarsi con parti che lui non conosce di se stesso.
Sì, esattamente. Sembra quasi che Emily sia il suo angelo custode.
Che cosa pensa Austin della guerra? È un affare da uomini ma lui rifiuta di andarci e preferisce contribuire ai cambiamenti a casa, nella propria città. È una scelta poco comune, non trovi?
Austin è un amante, non un combattente, anche se si lascia coinvolgere durante la seconda stagione dagli affari nazionali, rimanendo un po’ scottato. Quando comincia la Guerra Civile però è in una fase della vita agli antipodi della responsabilità. Come abbiamo già detto diventa più infantile e cerca di scappare da qualsiasi cosa: dalla società, dalla famiglia, dai legami. Ma a un certo punto, in questo girovagare, arriva al suo trauma, impara a riconoscerlo ed è la condizione migliore per iniziare a risolvere i problemi, partendo da casa propria. Deve immaginare come diventare un padre premuroso, migliore del suo. Non farlo significa continuare a perdersi e tornare al punto iniziale. È la scelta peggiore che possa compiere.
La pandemia ha influenzato le tue emozioni nel creare personaggi?
Penso che abbia forzato ciascuno di noi a rilassarci e che ci abbia permesso di vivere con una maggiore concentrazione rivolta all’interiorità, mettendoci in contatto con il nostro spirito creativo. Lo possiamo constatare anche nella terza stagione di Dickinson, che si concentra su un dramma familiare. Trovo che sia una bellissima fine, perché mette al centro le relazioni ed è stato molto bello potersi focalizzare sull’interiorità dei personaggi. Lo stesso che ho fatto durante questo lungo periodo nella mia vita. Senza distrazioni esteriori il mio spirito creativo si è spinto più in profondità.
-Carlotta Petracci
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati