Il nuovo film su Marilyn Monroe e il perché delle polemiche

Per nulla semplice o rassicurante, il film che ripercorre la storia di Norma Jean/Marilyn Monroe non piace perché scardina le regole: non è un biopic, non ha un happy ending e costringe a pensare. Proprio come l’arte contemporanea ritenuta “scomoda”

Il nuovo film di Andrew Dominik, tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates e presentato a Venezia tra molte polemiche e bocche storte, è un ottimo esempio di come funziona la ricezione e la fruizione culturale in questo momento storico – e delle distorsioni significative che la caratterizzano.
Blonde è quasi un capolavoro, e non mi dilungherò oltre su quanto un taglio significativo (diciamo tra la ventina di minuti e la mezz’ora) avrebbe giovato all’opera nel suo complesso, permettendo di togliere tranquillamente il ‘quasi’. Però. Blonde è indubbiamente un film importante, audace e – quello che più qui ci interessa – nuovo.
Intanto, Dominik è l’autore di uno dei film in assoluto più brillanti dello scorso decennio, vale a dire Cogan – Killing Them Softly (2012) e di due affascinanti documentari musicali dedicati a Nick Cave, One More Time with Feeling (2016) e This Much I Know To Be True (2022): non è quindi propriamente uno sprovveduto, né un regista goffo nell’esplorare le possibilità del linguaggio cinematografico.
Blonde è dunque un racconto al tempo stesso epico, pop, onirico e realistico: un racconto che dietro le apparenze del biopic nasconde la sostanza di uno strano documentario psicologico, dell’indagine cioè di una psiche che è sia individuale sia collettiva. L’argomento, abbastanza ovvio, è la fama: che cosa succede a un’identità umana, personale, nel momento in cui viene rifratta dal e nel prisma di quella finzionale, pubblica (Norma Jean/Marilyn Monroe/…)?

Andrew Dominik, Blonde (2022). Still da film

Andrew Dominik, Blonde (2022). Still da film

COSA NON PIACE DI BLONDE

Le due ore e quarantasette minuti del film si dedicano con passione e intelligenza a rispondere a questa domanda. Sembra quindi abbastanza ovvio che la delusione di buona parte della critica (ma, va detto, l’autrice del romanzo ha difeso senza mezzi termini la trasposizione) sia dovuta intanto alla frustrazione nei confronti delle numerose contravvenzioni alle regole, scritte e non, del genere biopic così come si è strutturato negli ultimi vent’anni almeno (e neanche il pur sontuoso Elvis di Luhrmann a esse si sottrae).
Sintomatica è, per esempio, una riflessione del genere: “Se la ripetizione è un’ottima figura retorica, lo sanno più o meno bene i politici, per conquistare l’attenzione di una platea, il regista e sceneggiatore Andrew Dominik s’è scordato un ingrediente fondamentale affinché l’espediente possa funzionare: l’incisività. ‘Yes, we can’, ‘Sole, cuore, amore’, ‘Happy sha la la’. Barack Obama, Valeria Rossi e Alexia, nei loro differenti campi di competenza, ci sono arrivati. Dominik, purtroppo, no” (Grazia Sanbruna, Fanpage, 30 settembre 2022).
Sintomatica cioè del fenomeno che in questa serie e in altre pagine stiamo a più riprese analizzando, e cioè quello della progressiva semplificazione degli oggetti culturali e delle opere d’arte. Impariamo quindi, per l’ennesima volta, che l’opera d’arte oggi per essere efficace deve essere “incisiva” come uno slogan o un ritornello, deve saper “comunicare” immediatamente e in maniera inequivocabile il suo senso – che sarà quindi univoco, mai ambiguo…

Andrew Dominik, Blonde (2022). Still da film

Andrew Dominik, Blonde (2022). Still da film

BLONDE COME SFIDA

Per Manohla Dargis, critica del New York Times, è addirittura un sollievo che “lei non debba soffrire per le volgarità di Blonde, l’ultimo intrattenimento necrofilo a sfruttarla”.
Siamo così tanto disabituati a incontrare un’opera che ci sfida, che ci impone di guardare le cose e la realtà da un altro punto di vista (che non sia, per esempio, quello della pura e semplice agiografia, magari resa con immagini sgargianti e fintamente trasgressive) da reagire ormai molto male quando per caso ne compare una.
Forse bisognerebbe ascoltare le parole di Adrien Brody – che nel film interpreta Arthur Miller – che in un’intervista ha dichiarato: “Dal momento che il film racconta una prospettiva in prima persona, finisce in qualche modo per diventare un’esperienza traumatica, perché tu sei dentro di lei – il suo percorso e i suoi desideri e il suo isolamento – in mezzo a tutta questa adulazione. È coraggioso, e ci vuole un po’ per digerirlo. E penso che confligga con la percezione che il pubblico ha della sua vita”.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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