Martin Scorsese e il cinema umiliato
Se a dominare è solo il business, il risultato può solo essere avvilente. Lo dice Martin Scorsese rispetto al cinema, ma lo stesso discorso vale anche per l’arte contemporanea. Ecco perché
È un po’ di tempo che Martin Scorsese se la prende con il cinema contemporaneo, principalmente quello dei ‘fumettoni’ e delle piattaforme digitali, definito spesso dal regista un luna park unicamente concentrato sul profitto: “Il cinema è svalutato, umiliato e sminuito sotto tutti i punti di vista, non necessariamente quelli dal lato del business, ma di certo dal punto di vista artistico. Fin dagli anni ottanta ci si focalizza sui numeri. Una cosa ripugnante. Il costo di un film è una cosa. Dato per assodato che un film costa un certo ammontare di soldi, ci si aspetta di rientrare della spesa e, ancora, di fare di più. L’enfasi ora è tutta sui numeri, i costi, il week-end di apertura, quanto ha incassato in America, in Inghilterra, in Asia, nel mondo intero, il numero di spettatori. In qualità di filmmaker e di persona che non riesce neanche a immaginare una vita senza cinema, trovo che questa cosa sia come un insulto” (in Andrea Bedeschi, BadTaste, 14 ottobre 2022).
Ora, uno può liquidare questo punto di vista come l’opinione di un vecchio autore che rimpiange un’epoca che non esiste più; solo che si tratta, ovviamente, di uno dei più grandi – e lucidi – artisti della sua generazione, di un fine teorico e di uno storico coltissimo. Quindi, magari, è uno da ascoltare attentamente. Tanto più che, come spesso avviene su queste pagine, possiamo tranquillamente estendere il ragionamento all’arte contemporanea (e alla letteratura, e alla musica…).
IL “SISTEMA” DEI CONTENUTI
In particolare – come sottolinea anche Daniele Vicari, un altro regista da sempre molto attento al contesto sociale in cui il cinema si sviluppa, nel suo ultimo libro Il cinema, l’immortale (Einaudi 2022) – il nucleo di attenzione in questo senso è il concetto di content, di “contenuto” artistico/culturale: il “contenuto”, infatti, è né più né meno che il corrispettivo oggettivo della likeability. Il film (o il romanzo, o l’album: o l’opera d’arte visiva, appunto) è ormai un contenuto inserito nell’archivio a disposizione. Il contenuto è likeable per definizione, strutturalmente. Il contenuto azzera di fatto le differenze tra le “opere”, anzi mira ad azzerare in definitiva l’opera stessa, il suo statuto. L’opera non serve più, perché a fatica si può ficcare e incastrare nell’elenco dei contenuti (contenuti disponibili, altri contenuti simili, ecc. ecc.). Questa logica mira all’equivalenza sostanziale di tutti i contenuti (quindi, virtualmente, di tutte le opere…).
Non importa se il contenuto è bello o brutto, di nicchia o mainstream, eccellente o scadente: serve solo a occupare una casella nella griglia. Ciò vuol dire che un film rilevante “vale” tanto quanto un film dozzinale, così come un romanzo scadente equivale a un capolavoro letterario (anzi, forse vale un po’ di più, perché più fruibile e digeribile e spendibile rispetto al capolavoro, per definizione difficile e impegnativo), e come l’opera d’arte innovativa vale in quest’ottica esattamente quanto l’opera fighetta*, decorativa, reazionaria.
Ha ragione dunque Scorsese nel dire che un sistema in cui il business, il mercato, i soldi regolano ogni scelta, ogni scambio e ogni interazione non è un buon sistema – e certamente non è un sistema che favorisca in alcun modo l’avanguardia o la radicalità delle idee.
[* Il “fighetto” è in buona sostanza colui o colei che (appartenendo alla classe agiata, privilegiata, dominante), nonostante le apparenze progressiste sue, del suo aspetto esteriore, delle sue dichiarazioni e dei suoi lavori – nel caso sia un/un’artista ‒, non mette mai davvero minimamente in discussione lo status quo, cioè il sistema di valori condivisi appunto dalla propria classe di appartenenza e di riferimento. Il fighetto è dunque intimamente conservatore e reazionario. Una prova di ciò consiste nel fatto che, anche quando nelle opere tratta temi progressisti e/o evolutivi, li “tratta”, appunto: vale a dire, essi rimangono appendici, oggetti al massimo di penetrazione archeologica, ma non costituiscono mai lo scheletro e il tessuto dell’opera, per così dire, la sua essenza profonda. Questo “trattare” problemi e temi da parte dell’autore/autrice avviene dunque a distanza, in maniera in fondo disimpegnata, e in ultima analisi – se ci pensiamo bene – cinica. Questo cinismo (ogni cinismo) consiste proprio nel porre e rispettare sempre una distanza (di sicurezza) tra sé e l’opera, tra l’opera e il mondo, tra sé e il mondo – e nello scoraggiare convintamente ogni influenza diretta di quest’opera (e di tutte le opere) sulla realtà sociale e politica in cui viviamo immersi.]
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati