Insurrection: il film di Andrés Serrano sull’assedio di Capitol Hill
Il film del noto artista sarà presentato in prima italiana allo Schermo dell’Arte Film Festival dal 16 al 20 novembre 2022 a Firenze. Una opera d’arte visiva su un racconto di attualità
Ci sono date che vanno ricordate. Il 6 gennaio 2021 ad esempio, pagina buia della storia d’America. E per non dimenticare né lo sgomento, né la vergogna, a un anno esatto dall’assalto a Capitol Hill, Andrés Serrano alla sua America ha fatto un regalo: un film. Il suo primo straordinario film: Insurrection presentato nel Cultural DC’s Source Theatre di Washington e che presto porterà lui stesso Italia grazie allo Schermo dell’Arte – Festival di cinema e arte contemporanea (che si svolge a Firenze dal 16 al 20 novembre). Settantacinque minuti di montaggio. Un lavoro di ricerca e accumulo di materiali indipendenti, tracce di un tentato golpe lasciate sui telefonini, sulle telecamere dei cronisti, sui video amatoriali, sulle piattaforme dei social. Un’esperienza immersiva su ciò che accadde e come accadde quel giorno cruciale per la democrazia americana. Un documento di cinema verità. E la verità fa male soprattutto nelle mani di Serrano che dell’America ci aveva già più volte mostrato il lato oscuro nei cicli della “Morgue” (1992) e nelle immagini del “Klan” (1990) con i cappucci immacolati a nascondere gli animi insanguinati.
INSURRECTION: IL FILM DI SERRANO
Ma lì lo sguardo dello spettatore ancora poteva sublimarsi grazie alla perfezione formale dell’opera, l’iperrealismo dai colori saturi, la definizione quasi ossessiva delle sue fotografie, il conforto di un’immagine controllata fino all’ultimo pixel. In Insurrection invece il controllo è impossibile, sebbene Serrano costruisca il suo film con una forte griglia e l’esplicito omaggio alla “Nascita di una Nazione” di Griffith che arriva subito già nei titoli di testa con i cartigli bianco su nero e la divisione in capitoli. Anche se qui in discussione è la “morte” più che la “nascita della nazione”. Ed ecco che dopo un inizio accompagnato dalla voce di Bob Dylan in “You Ain’t Goin’ Nowhere” (ma tutta la colonna sonora è un sofisticato capolavoro di rarità da The Carter Family a Bama Stuart) e da un found footage di immagini di storia americana passata e recente, si giunge a quella sciagurata giornata di gennaio che nel film di Serrano si rivela ben più brutale di quanto abbiamo potuto vedere nelle cronache dei nostri notiziari. Perché Insurrection (che non è un documentario ma a tutti gli effetti opera di un artista visivo) è la potente testimonianza di un evento che coinvolge non solo la politica ma raggiunge le radici dell’immaginario e raccontando la genesi di un golpe attraverso un flusso di immagini che squarciano il velo della realtà, ci immerge nella sete di violenza da guerra civile.
CAPITOL HILL SECONDO SERRANO
L’orda di (soprattutto) uomini, quasi esclusivamente bianchi, tutti vestiti red/white/ blue, portatori di striscioni e cappellini, reduci dalla campagna elettorale di Trump, all’inizio si raccoglie in una manifestazione di protesta. Alcuni gruppi scandiscono slogan, i militanti dettano le loro ragioni allo schermo del telefonino o postano messaggi nell’indistinto del web. Poi, si comincia a marciare. Un coro di bambini stonati avvolti nella bandiera stelle&strisce canta ossessivamente “Glory Glory Allelujah“. La tensione sale e il montaggio di Serrano si fa stretto. Ora siamo sotto il monumentale e neopalladiano Campidoglio. La folla diventa sempre più maschia e sempre più bianca. Ormai è scatenata. Urla, sbraita, sputa, minaccia, ulula. I primi piani veloci rivelano pupille dilatate, muscoli tesi, voci arrochite dal troppo strillare. “Usa Usa” “Iuuuuesssseiii”, “Iuessseeiii”, “We want Trump”, “Frreeedooomm” . Si impugnano spranghe. Si frantumano vetri. Si forzano porte. Spingendosi l’uno contro l’altro gli uomini usano i corpi come arma impropria. Una forza bruta senza controllo si scaglia contro una polizia che sembra tramortita, confusa, priva di ordini e indicazioni, armata solo di scudi trasparenti, capace di resistere più per paura fisica personale che per senso dell’istituzione. In uno stretto corridoio la folla è schiacciata contro gli scudi della polizia. Un corpo a corpo tra masse muscolari che ormai sono un tutt’uno. Una lotta mitologica, straziante di bestie ferite che occupa quasi metà film. Il rimbombo delle voci e delle urla diventa sempre più animale e man mano che scorre il tempo al di là dell’epica e della forza performativa e visiva della sequenza (Serrano qui dimostra la potenza del grande artista che conosciamo) non si può fare a meno di chiedersi: ma se questo è tempo reale come può essere possibile che non arrivi l’esercito? che non esploda un lacrimogeno? che il parlamento della più grande nazione democratica del mondo sia affidato a un gruppetto di poliziotti spaventati, lasciati soli a difendere la frontiera in un corridoio largo cinque metri? Poi all’improvviso il film si sposta. Siamo ormai all’interno dell’edificio, i rivoltosi sono entrati, rovesciano sedie, rovistano tra le carte, buttano per aria interi uffici capitanati dall’iconico simbolo di tanta rivoluzione che ha fatto il giro del mondo: l’eroe trumpiano incoronato da corna di bufalo. Un gruppo comincia a salire al primo piano, per arrivare alle vere stanze del potere difese esclusivamente da una signorile porta a vetri. Ed è lì che la paura uccide. Muore una donna, Ashli Babbit e per la prima volta ne vediamo l’intera sequenza ripresa dagli smartphone dei presenti. Non è uno schierato corpo di polizia a sparare, ma una guardia spaventata e sola. Una visione agghiacciante ci avvicina al corpo della donna in agonia, al suo sangue, alle urla dei militanti. Ma è anche l’annunciato culmine di una violenza che cresce per tutto il film e inevitabilmente conduce al suo peggiore esito.
CAPITOL HILL: IL DISCORSO DI DONALD TRUMP
Ma la vera violenza è quella che arriva dal cinismo del discorso funebre di Donald Trump, dove l’ex presidente in un primo piano dai colori smaglianti pronuncia l’elogio funebre di Ashli Babbitt usandola come simbolo e martire della sua America e giustificazione della rivolta. Un perfetto epilogo di quelle parole che Serrano all’ inizio di Insurrection fa apparire in sovrimpressione sulla bandiera: “Può darsi che l’odio è quello di cui abbiamo bisogno se dobbiamo raggiungere uno scopo ” firmato Donald Trump. Poi, finalmente arrivano i nostri. Si dà il via allo sgombero. La polizia ben educata invita con signorilità a uscire dall’edificio. Qualcuno tra i più facinorosi viene (sempre educatamente) ammanettato e fatto salire sui furgoni. Tutto è calmo, tutto è molto controllato. Non somiglia alle immagini dei poliziotti d’assalto che conosciamo dalle cronache delle rivolte nei ghetti. “Ma i neri vengono uccisi per molto meno di un assalto al Campidoglio. Questi sono bianchi e trattati coi guanti di velluto” Serrano dixit. Per questo non siamo del tutto sicuri che gli ultimi fotogrammi di Insurrection ci regalino l’Happy End. Ma speriamo, sia almeno davvero The End.
Alessandra Mammì
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