Morto nel silenzio Jean-Marie Straub. L’intervista a Roberto Silvestri
È mancato a Rolle, in Svizzera, il grande sperimentatore e cineasta francese, autore in coppia con Danièle Huillet, scomparsa nel 2009. Ma i media non l’hanno celebrato. Il ricordo di Roberto Silvestri e Alessandra Mammì
Lunedì 21 novembre Roberto Silvestri (storico, critico e cronista, voce militante del cinema più radicale e intelligente) sulla sua pagina Facebook scrive: “Jean-Marie Straub oggi è morto. La miseria etica e soprattutto culturale del cinema italiano nel suo complesso, noi cronisti e critici compresi (a parte Fuori Orario e Gian Vittorio Baldi) e anche della Sinistra politica, che senza gli artisti non è nulla, è esemplificata dalla spocchia e dall’arroganza con la quale sono stati trattati, recensiti, sbeffeggiati, ignorati, fraintesi, dagli anni ’80 ad oggi, le opere dei cineasti Huillet-Straub”.
JEAN-MARIE STRAUB: CHI ERA
Chi segue Silvestri lo ha saputo così. Non c’era stato un tg, un notiziario, un talk show e tantomeno una prima pagina di quotidiano a dare notizia della morte di uno dei più grandi artisti/cineasti del Novecento. Ma sapevamo invece tutto di femminicidi, di omicidi, serial killer dei Parioli, stragi commesse da un pazzo armato al di là dell’Oceano.
Così come non sapevamo che dopo un’intera vita passata nella periferia di Roma, Straub era andato a morire a Rolle in Svizzera accanto al suo amico Godard. Non sapevamo che in trent’anni di vita e lavoro nel nostro paese a nessun archivio, museo o cineteca italiana è venuto in mente di acquisire il suo patrimonio di appunti, lettere, story board e film. Film soprattutto, difficilissimi da vedere, comprare o trovare. Provate a cercare in streaming una copia decente del suo famoso, celebrato e meraviglioso “Cronaca di Anna Magdalena Bach“. Non è disponibile neanche su Mubi, mentre Rai Play (che pure dovrebbe averli) offre solo una selezione degli ultimi cortometraggi e il lungometraggio “Sicilia!”, limpido, perfetto, filmico dialogo con il Vittorini della “Conversazione in Sicilia” che, ci ricorda ancora Silvestri, “Nel 1999 con ministro dei Beni culturali Melandri e governo D’Alema, non ebbe il Premio Qualità perché “troppo letterario””.
Nessuno è profeta in patria, neanche in quella acquisita e scelta come fu l’Italia per il comunista Straub, non capito dall’intellighenzia di sinistra, lasciato andare via senza neanche un gesto per trattenere almeno il suo lavoro. A Marco Müller (tra i pochi a sostenerli istituzionalmente) che nel 2006 come direttore della mostra di Venezia li voleva in laguna per rendere omaggio a loro cinema con un Leone speciale, Daniéle Huillet e Jean-Marie Straub rifiutandosi di raggiungere il Lido, risposero che quell’invito era:”venuto troppo presto per la nostra morte – troppo tardi nella nostra vita”. E adesso che è troppo tardi anche per noi tutti, con l’aiuto di Roberto Silvestri, è il caso di riflettere su cosa abbiamo perso nell’ignorare l’immenso valore di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub.
INTERVISTA A ROBERTO SILVESTRI
Trent’anni a Roma in isolamento, portando avanti con fatica il suo lavoro. Perchè Straub era stato così emarginato dal sistema del cinema?
Era un uomo che mai si è riconciliato con il sistema. Fin dai suoi primi lavori che sono la denuncia di un ritorno dei nazisti in posizioni di potere. Sono gli anni in cui fa film dedicati alla Germania, compresa “Cronaca di Anna Magdalena Bach“. Gli anni in cui è a stretto contatto con Rainer Werner Fassbinder e con il nuovo cinema tedesco ma soprattutto Rosa von Praunheim, che nonostante il nome è un uomo, tra i primi a occuparsi di problemi di omosessualità. Poi viene in Italia nel 1969 per girare “Othon” tragedia di Corneille in costume ma ambientato in una Roma piena di traffico e resta a Roma perché in quel momento l’Italia è un baluardo della lotta antifascista. Qui nel 1975 gira un film molto importante ” Mosè e Aronne” dove si comincia ad elaborare un’idea di Europa che nasce come scontro/incontro tra cultura ebraica e cultura greca, partendo dal presupposto che una parte dell’identità europea pre-rivoluzione francese è legata a questo incontro che diventa poi fondante nella cultura americana. Ma mentre elabora queste operazioni, non entra mai contatto con l’Intellighenzia romana, resta lontano dal cerchio che va da Moravia a Pasolini, così come avrà rapporti di estraneità con il cinema italiano compresi Bellocchio e Bertolucci, proprio perché questa sua elaborazione della cultura cinematografica che condivide con Jean-Luc Godard da una parte abbraccia il cinema moderno dalla forte soggettività, con quel punto di vista individuale che non più ha rapporti ideologici con Chiesa o partito e sta elaborando una propria visione, ma dall’altra proprio questa soggettività viene messa in discussione da ciò che succede nel mondo, soprattutto dalla guerra del Vietnam che riporta in scena un problema di identità politica. Il cinema allora deve uscire dal cinema. Per lui come per Godard si apre una strada di sperimentazione e isolamento dal sistema.
Godard sembra più integrato di lui…
Godard è uno sperimentatore a tutto tondo e sa confrontarsi anche con il cinema industriale, ma in fondo lo farà pochissimo. Rimarrà sempre indipendente: film a basso costo totalmente controllati da lui. Mentre Straub fatica di più nel fare cinema indipendente: ha il solo appoggio di qualche mecenate e poche istituzioni particolarmente illuminate. Eppure riesce a produrre film a bassissimo costo ma di altissima qualità. Bei film con pochi soldi: una cosa che disturba e mette in imbarazzo l’industria.
Parliamo di lui ora, ma lei fu altrettanto importante. Era una delle rare coppie di autori uomo/donna che condividono la vita e i film. La qualità in loro sta anche nella perfezione di ogni inquadratura, come procedevano nel lavoro? Come lo dividevano? Facevano storyboard?
Sì certo c’erano degli storyboard, ma soprattutto una partitura musicale che definiva anche le pause e i ritmi delle parole che dovevano scandire gli attori. Daniele e Jean-Marie usavano un sistema di colori, un codice di loro invenzione che indicava quando allungare una lettera o porre una pausa. Era Danièle a guidare il film con le spalle alle riprese ma con attenzione pazzesca al sonoro, alla parte fonica, alla registrazione del sound. I loro collaboratori più importanti sono i fonici, non i direttori della fotografia. Ed era sempre lei a curare la parte produttiva e organizzativa. Non a caso dopo la sua morte nel 2006, lui fa soprattutto cortometraggi. Il loro lavoro può rappresentare il primo esempio del cinema post moderno e anche quel cinema che ha elaborato una critica analitica per definire quando un’immagine ha una funzione e quando invece non ce l’ha. Quando Robert Bresson nelle sequenze di battaglia inquadra solo gli zoccoli dei cavalli, apre una fase di totale decostruzione di quella narrativa che era stata imposta dal cinema classico. Come Bresson anche in Straub le sue qualità solo quelle del de-costruttore: il taglio netto in montaggio che lui porta nella distruzione della punteggiatura ritmica; il cinema di scena che si oppone al cinema del piano e dunque l’abolizione del campo contro campo; l’unione fra documentario e fiction che poi diventa un fulcro del cinema moderno; la camera fissa; il décadrage quel decentramento dell’inquadratura che ci spinge verso le zone abbandonate, ai margini del décor. “Non siamo rigattieri” diceva “non dobbiamo elencare gli oggetti…
Quale rapporto aveva con l’arte?
Un cortometraggio del 2015 è un omaggio all’arte italiana poi il mediometraggio “Cézanne, dialogue avec Joachim Gasquet” è la presa di posizione per dichiarare che le opere si vedono solo da uno o due punti di vista, non si gioca danzando con la macchina da presa sul quadro. Ma è il cinema postmoderno a richiedere di debordare da tutte le parti compresa la letteratura. Non si tratta di diventare letterario ma di lavorare quasi su un happening della parola. E lui sulla parola e sulla lingua ha molto lavorato, in questo si avvicina a Pasolini quando afferma che questa lingua italiana fascista va ricostruita. Straub aiutava gli italiani a ricostruire la lingua: è la parola che lui mette in scena, non il libro. Chi lo capiva lo trovava solare ed esplicito esattamente il contrario di quel che vuole la vulgata nel considerare Straub noioso o troppo rigoroso.
La causa della sua emarginazione fu più culturale o politica?
Politica sicuramente. Come lui stesso afferma con uno dei suoi primi film è un “non riconciliato”. Va via dalla Germania dichiarando che erano tornati nazisti al potere, viene in Italia e attacca la storia politica del Pci per la distruzione della campagna e della vita di braccianti, sostiene il Sessantotto e si schiera per il Terzo Cinema. Per tutti questi motivi è partita un’opera di demolizione e a parte alcune riviste come “Filmcritica” in Italia o i “Cahiers” in Francia, poche voci lo hanno difeso. Ma più che l’opera di denigrazione a isolarlo soprattutto qui da noi, è stato il silenzio che lo ha circondato fino a diventare un silenzio assordante il giorno della sua morte.
Alessandra Mammì
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