Ruggero Deodato, il regista che ha divorato il cinema italiano
A poche ore dalla morte del regista ne ripercorriamo la storia, concentrandoci sulla portata rivoluzionaria del suo cinema. Una portata non pienamente compresa
È morto il 29 dicembre 2022, all’età di 83 anni, il regista Ruggero Deodato, nato a Potenza nel 1939 e protagonista di una fase irripetibile del cinema italiano.
Come molti suoi colleghi e coetanei, aveva esordito giovanissimo con il padre del Neorealismo, Roberto Rossellini, come aiuto regista per Il generale Della Rovere (1959) e Viva l’Italia (1961), assorbendo una lezione di cui si ritroveranno nella sua opera echi insospettabili ma solidissimi circa un ventennio dopo. Tra Anni Sessanta e Settanta ‒ dopo un ulteriore apprendistato con Sergio Corbucci, Riccardo Freda e Antonio Margheriti che gli permette di esplorare vari generi (dallo spaghetti-western al thriller erotico, dal film d’avventura al poliziesco) – approda al poliziottesco: nel 1976 gira infatti il suo primo capolavoro, Uomini si nasce poliziotti si muore, sceneggiato da Fernando Di Leo.
Ma il suo nome resta indissolubilmente legato a Cannibal Holocaust (1980), capolavoro del cinema horror non solo nazionale di quegli anni e apice di un momento storico in cui il cinema italiano letteralmente divorava se stesso e la propria tradizione recente (i generi, la sperimentazione, le competenze, le risorse, le storie e persino gli attori), in una strana ma affascinante operazione di dépense che preludeva al successivo ripiegamento e a una crisi epocale che dura per certi versi ancora oggi.
“Il punto nevralgico di ‘Cannibal Holocaust’ sta nel suo realismo: che non risiede semplicemente nell’espediente del mockumentary, ma nella qualità sottile ed essenziale dell’immagine di Deodato”
RUGGERO DEODATO. IL CINEMA DEGLI ANNI DI PIOMBO
Tra la fine degli Anni Settanta e i primi Ottanta, invece, questi autori – oltre a Deodato, Umberto Lenzi, Sergio Martino, Enzo G. Castellari, Joe D’Amato e il grandissimo Lucio Fulci: tutti autori all’epoca ovviamente disprezzati dalla critica, salvo poi essere riscoperti di recente dopo che Quentin Tarantino era venuto a dirci che questi signori erano piuttosto bravi a fare i film, al punto da essere altrove addirittura considerati dei maestri… ‒ erano appunto impegnati a consumare tutto, a bruciare tutto, a digerire tutto ciò che rimaneva del patrimonio immaginario italiano e hollywoodiano (dallo zombie-movie allo slasher, dal genere postapocalittico ispirato a 1997: Fuga da New York al fantasy-barbarico-à la Conan), esattamente peraltro come facevano gli zombi e i cannibali proiettati sullo schermo.
Il contesto era quello degli ‘anni di piombo’, della violenza politica, della crisi socio-economica e di un clima generalizzato di insicurezza e precarietà.
È la stagione quindi – accanto naturalmente agli “autoriali” Prova d’orchestra (1979) di Fellini, L’ingorgo (1979) di Luigi Comencini, Maledetti vi amerò (1980) di Marco Tullio Giordana e La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci a cui vanno aggiunti almeno Un borghese piccolo piccolo (1977) di Mario Monicelli, Anima persa (1977) e Caro papà (1979) di Dino Risi, La terrazza (1980) di Ettore Scola, per iniziare a comprendere appieno il disincanto, la paura e la dissociazione che pervadono quel periodo ‒ di film oscuri, scombinati e meravigliosi come Zombi 2 (1979), Buio omega (1979), Incubo sulla città contaminata (1980), Anthropofagus (1980), la trilogia composta da Paura nella città dei morti viventi (1980), …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1980) e Quella villa accanto al cimitero (1981), I nuovi barbari (1982), Fuga dal Bronx (1983) e 2019 – Dopo la caduta di New York (1983). Altra cosa rispetto ai barbosi drammi sentimentali ambientati a Roma Nord che hanno invaso gli schermi dal decennio successivo.
CANNIBAL HOLOCAUST DI RUGGERO DEODATO
Al centro di questa nebulosa si trova proprio Cannibal Holocaust, che per molti versi è un unicum anche in quella stagione di sperimentazione folle e convulsa. Sotto certi aspetti, infatti, questo è davvero il film che chiude definitivamente il periodo del “lungo neorealismo” che era iniziato con Roma città aperta e che, attraverso le opere di Rosi, Fellini, Pasolini, Antonioni, Visconti, Lizzani, Cavani, Petri e Scola, aveva esplorato il rapporto tra cinema italiano e reale. Per trovare un titolo equivalente e pressoché contemporaneo, a livello di capacità di fungere da spartiacque (pur nella diversità assoluta di intenti e stile), bisogna rivolgersi ad Amore tossico (1983) di Claudio Caligari.
Il punto nevralgico di Cannibal Holocaust sta infatti nel suo realismo: che non risiede semplicemente nell’espediente del mockumentary (allora di certo innovativo e oggi abusatissimo), o nelle deprecabili scene di violenza sugli animali, ma nella qualità sottile ed essenziale dell’immagine di Deodato che si insinua per così dire “sotto la pelle” della realtà. Qualità che è dovuta sicuramente in parte alla maestria acquisita nei lunghi anni di formazione a fianco degli autori delle generazioni precedenti, ma soprattutto a quella specifica capacità di riflessione critica che questa immagine trattiene – e che ritroviamo, a livello internazionale e sempre in ambito horror, in autori come George A. Romero e John Carpenter. L’orrore è nella società, e nel guardare il film ci rendiamo conto molto presto di chi davvero siano i “mostri”, i “cannibali”; delle caratteristiche orrorifiche della società dello spettacolo. Deodato riesce a iniettare questo discorso in immagini iperrealistiche potentissime e ipnotiche, secche e crude, che si incidono nel cervello dello spettatore proprio perché in fondo riflettono fedelmente il mondo fuori dallo schermo, fuori dalla sala.
Lo spiegavano molto bene Roberto Curti e Tommaso La Selva nel loro imprescindibile Sex and violence (2003): “Il discorso sulla schiavitù delle immagini, appena accennato, ricollega prepotentemente Cannibal Holocaust a quel quotidiano da cui Deodato prende spunto; il vero paradosso di una pellicola che si puntella al realismo al punto da causare equivoci sulla presunta veridicità di quanto mostrato, è precisamente il suo portato metaforico: la violenza e la crudeltà cui Monroe e gli altri assistono nel buio della sala di proiezione rispecchia quella che ogni famiglia si trova davanti nei TG di mezza sera” (Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, Lindau, Torino 2003, p. 292).
Negli anni successivi, Deodato proseguirà coerentemente questo percorso di consumo estremo del cinema e dei suoi generi, con opere come La casa sperduta nel parco (1980), I predatori di Atlantide (1983), Inferno in diretta (1985), Camping del terrore (1986) e The Barbarians (1987). Se c’è un rimpianto, è che nel suo caso come in altri – tra cui appunto quello di Caligari – l’ingeneroso e miope sistema produttivo italiano non abbia concesso nei decenni successivi a questo importante autore di sviluppare con serenità e ampiezza il suo discorso artistico.
Christian Caliandro
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