Il film Empire of Light di Sam Mendes. Il cinema, la solitudine e gli skinheads
Nel suo nuovo film, il regista Sam Mendes racconta l'Inghilterra degli anni Ottanta. Al cinema dal 23 febbraio con Searchlight Pictures, una storia ambientata dentro e fuori la sala cinematografica
Dopo 1917 il regista Sam Mendes ritorna nelle sale italiane il 23 febbraio con Empire of Light, film scritto durante il lockdown e di carattere decisamente più intimista, presentato in anteprima italiana al 40esimo Torino Film Festival. “La pandemia è stata un lungo periodo di autoriflessione per me come per molte altre persone“, ha ricordato il regista. È la storia di Hilary, una stellare Olivia Colman (The Favourite, The Lost Daughter), direttrice di sala di un cinema sulle coste meridionali dell’Inghilterra agli inizi degli Anni Ottanta e del gruppo di colleghi – dallo strappa-biglietti, alle maschere, al proiezionista – che tengono vivo il grande e splendido edificio in stile art déco che ha vissuto, come sala da proiezioni e da ballo, momenti decisamente più fortunati nel passato.
EMPIRE OF LIGHT. LA STORIA
Siamo nella Gran Bretagna di epoca thatcheriana fatta di tensioni sociali, di aggressioni razziste con gli skinheads in prima linea, della rivolta di Brixton – proprio nel 1981, anno in cui è ambientato il film -, della musica degli Specials, Beat, Selecter e del movimento 2 Tone Ska. In questo contesto, che inevitabilmente avrà ripercussioni anche su quella che sembra essere la tranquilla vita di provincia nella cittadina di Margate, Sam Mendes segue le vicende esistenziali di Hilary, ben assistito dalla splendida fotografia di Roger Deakins, alla quinta collaborazione con il regista di American Beauty (1917, Blade Runner 2049, Skyfall, The Shawshank Redemption). Entrando nel vivo della storia… Hilary esce da una depressione, vive sola in un modesto appartamento, recita a memoria versi di poesia: i colleghi – una bella galleria di attori, da Hannah Onlsow (Janine) a Crystal Clarke (Ruby) – sembrano essere il suo unico legame con la realtà, anche se con rassegnazione deve soddisfare gli appetiti sessuali del manager del cinema, Mr. Ellis, magistralmente interpretato da Colin Firth. L’arrivo del giovane collega di colore Stephen e il legame via via più intenso che Hilary intreccia con il personaggio, co-protagonista del film (nel ruolo c’è Micheal Ward), sembra una parentesi incantata in un’esistenza grigia e senza prospettive. Ma non tutto, ovviamente, può filare liscio. Le due solitudini ed emarginazioni, quelle determinate dalla malattia mentale per Hilary e dai pregiudizi e dalla violenza razziale per Stephen, non possono incontrarsi fino in fondo.
INTERPRETAZIONI MAGISTRALI E UN VERO OMAGGIO AL CINEMA
Il film ruota intorni a questi rapporti, ma è la qualità delle interpretazioni a dare spessore. Il volto di Hilary che si apre alla speranza o incontra la disperazione, il personaggio del proiezionista Norman affidato a Toby Jones, che gioca un ruolo importante, quasi assumesse su di sé le virtù salvifiche del cinema. “Oggi, l‘arte della proiezione è largamente sorpassata dal digitale – ha sottolineato Mendes – ma Norman appartiene a un tempo in cui i film erano proiettati da veri professionisti che usavano due proiettori con i film in celluloide e custodivano il segreto del passaggio da un rullo all‘altro“. Il film per la sua ambientazione – gli esterni del cinema con i neon accuratamente ricostruiti, gli interni della sala cinematografica riarredati dallo scenografo Mark Tildesley – è un omaggio alla settima arte, e in particolare a quel lungo periodo di gloria iniziato negli Anni ’20-’30 e che agli inizi degli Anni ’80 si avviava al declino. Continua Mendes: “Si parla molto della fine del cinema, ma per me, la perdita maggiore è quella della proiezione. I proiezionisti erano una parte dell‘universo del regista: se stavano proiettando Lawrence d‘Arabia, avevano la consapevolezza che in quel momento stavano rappresentando David Lean“. È in questo contesto che deve essere letta, la scena – forse la più bella e commovente del film – in cui Hilary assiste da sola, nell’immensa sala, alla proiezione di Oltre il giardino di Hal Ashby.
I CIELI DI WILLIAM TURNER
Il cinema può essere un momento salvifico? Sam Mendes lascia aperto il quesito, peraltro più che mai di attualità in tempi di sale non proprio affollate, in lotta con la concorrenza delle piattaforme. Resta da fare un’annotazione sulla scelta di Margate, località sulla costa del Kent dov’è ambientato il film. Mendes ci tiene a sottolineare che Margate “è il luogo dove William Turner dipinse molte delle sue opere, scegliendo questa località perché a suo dire aveva i cieli più belli d‘Europa. Ed è anche il posto dove T.S. Eliot abbozzò La terra desolata, seduto su una pensilina del bus proprio davanti al cinema, guardando verso la spiaggia e il mare grigio che aveva di fronte.”
Dario Bragaglia
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