Un film sottile e violento. Intervista a Mario Milizia, artista senza etichette

Non è possibile definire in maniera univoca il lavoro di Mario Milizia, che da sempre combina linguaggi artistici diversi. Nella sua ultima opera si ispira addirittura a un libro fittizio inventato da Antonioni

Mario Milizia (Milano, 1965) fin dagli esordi ha saputo muoversi al confine tra scrittura, cinema, performance e arti visive, combinando suono, spazio e linguaggio filmico. La sua ultima opera cinematografica, La stagione, si ispira a un libro fittizio, presente nel film La notte di Michelangelo Antonioni. Ne abbiamo parlato con lui.

Mario Milizia, ritratto

Mario Milizia, ritratto

Mi ha sempre colpito la tua attitudine a muoverti su un territorio di confine che pochi hanno frequentato ‒ penso ad artisti come Richard Artschwager, Allan McCollum, John Armleder, ma anche Chris Marker ‒ e che tu espliciti in opere come la compilation Vagabondo o Style Mixer. Ci riassumi il tuo percorso artistico?
Del mio percorso artistico, da autodidatta, posso indicarti una data di inizio, il 1990, quando l’occasione di collaborare in veste di grafico al catalogo della Biennale di Venezia mi fece interessare al lavoro di artisti a me sconosciuti. Rimasi inoltre molto colpito dalla mostra di Jenny Holzer al padiglione americano, e grazie a questa scoperta, in seguito ebbi modo di approfondire l’arte statunitense degli Anni Ottanta, quella meno espressiva, quella che Celant raccontò nel suo libro Inespressionismo, dove venivano presentati artisti che si interrogavano su concetti come invenzione, originalità e autorialità utilizzando mezzi come musica, pittura, fotografia, performance, video, con libertà, senza vincoli formali o concettuali.

A quando risale la tua prima mostra?
La mia prima mostra personale risale al 1996. Una performance di circa due ore negli spazi non profit di Viafarini, su invito da Alessandra Galletta, dal titolo Soundtrack Without a Film. Nella galleria principale si poteva ascoltare musica suonata da un Dj con l’idea di evocare la trama di un film. Subito dopo, grazie a una recensione della mostra apparsa sulla rivista francese Bloc Notes, ho avuto l’opportunità di incontrare e stabilire un rapporto con una galleria a Parigi che è proseguito per circa un decennio. Da quel momento è iniziato un periodo caratterizzato da un senso di smarrimento e insicurezza intellettuale nonostante avessi raggiunto l’obbiettivo di collaborare con una galleria.

Poi cosa accadde?
Considero molto importante il 2012, anno di pubblicazione del mio primo racconto, Eyes Wide Open. Da quel momento la scrittura è entrata in modo costante a far parte della mia pratica artistica, che a oggi include anche video e opere visive. Ho appena concluso un nuovo lavoro da vedere al cinema.

L’ARTE E LA CARRIERA DI MARIO MILIZIA

Il tuo lavoro sembra anticipare operazioni successive come On Otto di Tobias Rehberger o Feature Film di Douglas Gordon. Come hai attraversato il decennio tra Anni Novanta e Anni Dieci? Ti sei riconosciuto di più in una estetica relazionale o in una poetica della post-produzione? O in nessuna delle due?
Dalla seconda metà degli Anni Novanta fino al 2009, anno della mia ultima mostra personale a Parigi, è stato un periodo ricco di opportunità per presentare entrambi gli approcci. Ho continuato a fare installazioni dove il suono era protagonista come quella al Magasin di Grenoble dal titolo Continental Encore (1997), dove l’opera era una raccolta di musica “d’arredamento” in omaggio a Musique d’Ameublement di Erik Satie. Lo spazio espositivo era vuoto, le pareti rivestite di una carta da parati effetto legno. Ma ho anche proseguito la mia ricerca sull’immagine, soprattutto fotografica. Con una serie di lavori sull’architettura “impossibile” dal titolo Architecture is Frozen Music ho riscontrato anche un certo inaspettato successo commerciale.

E poi?
Nel 2009 ho presentato Mood Mixer, che è la prosecuzione ideale di un lavoro di qualche anno prima (Style Mixer, 2003). Come il suo precedente, è un oggetto costituito da due dischi che ruotano uno sull’altro, nella tradizione delle “wheel chart”. Riportando una miriade di aggettivi e definizioni di stati d’animo, questa ruota produce più di quindicimila combinazioni che definiscono altrettanti possibili umori di un individuo. In mostra c’era un secondo lavoro, Jubilant Hallucination (il cui titolo deriva da una delle definizioni prodotte da Mood Mixer), costituito da un breve video amatoriale prelevato da YouTube, registrato probabilmente con un telefono cellulare – durante un grande concerto in uno stadio. A queste immagini di attesa ed entusiasmo, riprese dal punto di vista del pubblico, è stato sostituito l’audio originale e sono stati sovrapposti dieci diversi pezzi musicali di diversi autori perfettamente congrui con il ritmo e il significato delle immagini.

Manifesto La Stagione

Manifesto La Stagione

LA STAGIONE DI MARIO MILIZIA

Si percepisce che eravate in molti a esplorare una rilettura dei media: tu usavi vecchie foto retinate di famiglia, Maurizio Cattelan manipolava le macchine fotografiche giocattolo con dentro le vedute delle città, mentre Stefano Arienti cancellava le immagini da libri e poster. In questo abuso e ri-uso dei media c’è stato qualche esempio che ti ha suggestionato?
Da molto giovane sono stato suggestionato da Andy Warhol, più tardi, senz’altro, dai primi lavori di Richard Prince, come la serie Cowboys, in cui ha ri-fotografato le campagne pubblicitarie Marlboro Country eliminando loghi e testi, un gesto artistico semplice ma con un’altissima carica estetica e concettuale. La pubblicità, come i rifiuti, per qualcuno è un’opportunità. Pare che una persona in media veda o ascolti tra i 400 e i 600 annunci pubblicitari al giorno. Io personalmente spesso mi domando quali siano le tecniche creative e narrative che vengono utilizzate per attirare la nostra attenzione, oppure in che modo persone diverse potrebbero comprendere questo messaggio in modo diverso da me. Quali valori, stili di vita e punti di vista sono rappresentati oppure omessi da questi messaggi?
Questi temi sono stati fondanti per l’ideazione de La stagione, il mio ultimo lavoro, un film, la cui realizzazione è iniziata durante la pandemia, liberamente tratto dall’omonimo romanzo scritto da Giovanni Pontano.

Raccontaci qualcosa in più.
Sia il libro che l’autore sono fittizi, sono creazioni della fantasia di Michelangelo Antonioni, protagonisti del film La notte del 1961. Oggetto di scena il primo, personaggio principale nel ruolo dello scrittore il secondo, interpretato da Marcello Mastroianni. Il libro viene mostrato con insistenza, all’inizio del film, quando Giovanni e sua moglie Lidia (Jeanne Moreau) fanno visita a un loro amico in ospedale e poi durante la presentazione organizzata dalla casa editrice. Le inquadrature molto ravvicinate consentono di leggerne non solo titolo e autore, ma anche il titolo secondario: Il romanzo sottile e violento dei nostri anni. A distanza di oltre mezzo secolo, questo libro, immaginato da Antonioni come complemento scenico, nel mio lavoro si emancipa, distaccandosi completamente dalla trama de La notte e dando vita a un’opera dove realtà e finzione si sovrappongono. Un senso di attesa e inquietudine pervade il film come a preannunciare la catastrofe imminente o, come nella tragedia greca, a indurre la catarsi negli spettatori. Ho concepito quest’opera confortato dal fatto che nessuno avrà mai la possibilità di leggere il libro La stagione immaginato da Antonioni, ho creato un racconto libero, sottile e violento proprio come lo spirito dei nostri anni.

Marco Senaldi

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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