Joyland: il film sui diritti LGBTQIA+ censurato in Pakistan
Considerato “ripugnante” dalle autorità pakistane, il lungometraggio di Saim Sadiq premiato a Cannes e selezionato per rappresentare il Pakistan agli Oscar racconta un amore senza frontiere
“Joyland è la testimonianza diretta di come una mentalità conservatrice e fallocentrica possa danneggiare a più livelli le fasce deboli della popolazione, siano esse donne, bambini o persone non binarie”. È quanto affermato dal giovane regista pakistano Saim Sadiq (Lahore, 1991) durante la presentazione a Milano del suo primo lungometraggio, vincitore del Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022 e designato dal Pakistan, lo scorso dicembre, per la corsa all’Oscar 2023 come miglior film internazionale. Non a caso la pellicola ha tra i produttori esecutivi la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace, Malala Yousafzai, da sempre in prima linea per garantire equità di trattamento e possibilità di istruzione alle giovani donne pakistane. Molte delle istanze rivendicate dalla comunità LGBTQIA+ in Pakistan si intrecciano, infatti, alle battaglie per la parità di genere, per l’allentamento della censura religiosa e per l’abolizione del patriarcato che spesso non consente alle donne di tornare al lavoro una volta diventate madri.
LA TRAMA DI JOYLAND
Protagonista del melodramma pakistano di 127 minuti, una famiglia estremamente conservatrice di Lahore attende con ansia la nascita di un nipote maschio: per questo motivo intima al figlio Haider di trovare un lavoro, in maniera tale da permettere a Mumtaz, la sua giovane moglie, di abbandonare la carriera professionale e dedicarsi esclusivamente alla casa. I fatti precipitano quando l’unico impiego trovato dal protagonista è in un teatro erotico dove ben presto si innamorerà di Biba, una ballerina transgender.
La tragedia si articola così su due livelli: Haider e Biba non possono vivere liberamente la loro relazione considerata scandalosa, mentre Mumtaz, relegata al ruolo di casalinga dagli anziani della famiglia, decide di togliersi la vita.
LA CENSURA DI JOYLAND IN PAKISTAN
Calpestare le prerogative di una singola categoria di individui conduce, dunque, a una reazione a catena che danneggia gli elementi più deboli dell’organismo sociale, fino ad arrivare a incidere profondamente anche su coloro che erano favorevoli ai divieti. La morale del film sembra quindi essere ben chiara. Eppure, i fondamentalisti pakistani lo hanno definito “ripugnante”, esortando il governo a un suo ritiro dalle sale. Dopo l’unanime coro di proteste internazionali, la Repubblica Islamica del Pakistan ha fatto marcia indietro, permettendone la visione al grande pubblico solo dopo l’eliminazione di alcune scene considerate troppo “spinte”, quali il bacio tra il giovane Haider e la transessuale Biba.
Una vittoria parziale per il regista, che lascia ancora di più l’amaro in bocca una volta saputo che nella città di Lahore, set del film, e in tutta la restante regione del Punjab, la pellicola è tutt’ora vietata.
LE ISTANZE DELLA COMUNITÀ LGBTQIA+ IN PAKISTAN E NON SOLO
Un comportamento, quello del governo pakistano, che lo stesso Saim Sadiq ha definito “bipolare”: da un lato la candidatura di Joyland in rappresentanza dell’intero Paese nella corsa agli Oscar, dall’altro l’impossibilità di visione per circa trenta milioni di persone. Eppure, se si ripercorre a ritroso la storia del Pakistan, si può notare come persone non binarie abbiano raggiunto alte cariche sociali e di corte sia a livello artistico che di potere politico. Nel recente passato, a cavallo tra il 2017 e il 2018, il governo aveva emanato il Transgender Persons Act, una serie di normative estremamente progressiste atte a garantire libertà d’espressione e tutela alle persone non binarie.
L’avversione nei confronti della comunità LGBTQIA+, tuttavia, è aumentata negli ultimi due anni. Oggi le persone transgender in Pakistan non hanno accesso ai servizi di base e sono soggette a continue vessazioni. Attualmente sono in corso uno sforzo concertato per limitare i diritti loro concessi ai sensi dell’atto sopra citato e una campagna diffamatoria che alimenta lo stigma e la violenza contro le persone transgender, mettendole ulteriormente a rischio, come dichiarato da Amnesty International.
Quella relativa a ciò che va contro ai dettami imposti dalla religione, non solo islamica, sta assumendo sempre di più la forma di una vera e propria fobia. Il regista ha iniziato a lavorare al film nel 2016 a Lahore, spostandosi poi temporaneamente negli Stati Uniti, dove per certi versi ha riscontrato un egual tipo di avversione: “Perché un uomo eterosessuale bianco in Texas si preoccupa così tanto dei diritti dei trans? Perché ne è ossessionato quando non influenzerà affatto la sua vita? È lo stesso motivo per cui una donna di 50 anni in Punjab pensa che il mio film ostacolerà in qualche modo la sua esistenza”.
Per Saim Sadiq la risposta a queste domande è una sola: la paura che il “diverso” possa costituire una minaccia per il sistema patriarcale, fondato su una struttura binaria. E l’unico modo per rispondere al timore è dissiparlo, continuando a parlare di determinate tematiche e battendosi per la parità di diritti.
Elisabetta Roncati
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati