Gli ultimi giorni dell’umanità. Il film di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo
Come vedere un film che sembra un immenso frammento e che dura tre ore? E che alterna immagini d’archivio a sequenze cinematografiche, per offrire un’esperienza complessa allo spettatore? Qui una lettura critica del progetto
Gli Ultimi giorni dell’umanità è il titolo apocalittico del film montato a quatto mani da Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Come vedere un film che si presenta come un immenso frammento? Anzi, come vedere una costellazione di frammenti che non si corrispondono, ma coesistono per pura contiguità? Vedendo questo film ci troviamo di fronte a una specie di allucinazione, dove Bela Tarr, Straub, Fellini, Abel Ferrara, Carmelo Bene e molti altri autori si susseguono in un ininterrotto flusso di immagini. A questi autori si interpolano frammenti di biografia. La figlia di Ghezzi, Aura, l’attrice e sceneggiatrice Nennella Bonaiuto e altri.
Originariamente il film avrebbe dovuto chiamarsi “Luce in macchina”. Un vecchio progetto coltivato da anni che avrebbe messo in scena lo sterminato archivio “Luce” e quello personale di Ghezzi. Ho chiesto a Alessandro Gagliardo come è nato questo film. Vale la pena riportare buona parte della sua risposta: “Nel 2018 Enrico voleva montare un film che si chiamava Luce in macchina, un vecchio progetto che aveva sviluppato insieme a Nennella Buonaiuto anni addietro e mai realmente decollato, nonostante una lunga e preziosa ricerca e selezione all’interno degli archivi Luce. Ricevetti la proposta e mi presi qualche giorno per pensarci. Dopo due giorni telefonai dicendo che nel 2009 avevo mandato un’email a Enrico, dopo aver visto una notte di fuori orario in cui lui filmava Umberto Eco che gli faceva i tarocchi e gli avevo proposto di fare qualcosa del suo archivio. Non c’era alcuna idea specifica del film che stavamo iniziando e non lo abbiamo mai definito lungo i quattro anni a seguire. Lo abbiamo scoperto. Passo dopo passo. Il primo fu provare a trovare un titolo. All’inizio Enrico propose “On ne saurait penser a rien”… Dopo Venezia, tornati al montaggio, Enrico ruppe il silenzio di un pomeriggio molto calmo semplicemente dicendo Gli ultimi giorni dell’umanità”.
IL CINEMA INFORMALE DI GHEZZI E GAGLIARDO
Colpisce in queste parole il fatto che “non c’era una idea specifica di film” e che la sequenza dei frammenti (“l’idea”) è stata scoperta dopo. Sotto questo aspetto il film di Ghezzi e Gagliardo è prossimo a un’idea di cinema informale, dove l’immaginazione di qualcosa non è praticamente immaginato. In mancanza di una sceneggiatura (idea-guida) il “senso” migra fuori dal linguaggio articolato ed è immanente all’atto del vedere stesso. Il prologo del film è una sequenza di immagini di un vulcano che vomita fuoco e lava, immagini che incendiano e inceneriscono ogni cosa. Quelle immagini sembrano avvertire lo spettatore: non resterà nulla! Gli ultimi giorni dell’umanità sono risucchiati nella metafora divoratrice e dissolutoria del vulcano. In questo scenario restano solo grappoli di immagini, frammenti filmici, residui di memorie biografiche. La struttura della narrazione – lo spazio-tempo del cinema – è dissolta a vantaggio di una pratica quasi pulsionale (informale, appunto) – come è accaduto nel passato con artisti della levatura di Cage, La Monte Young, Stockhausen. È da notare che in questo film Ghezzi e Gagliardo riprendono un modo di procedere che fu messo in scrittura da Georges Bataille, soprattutto nella Somma ateologica, il cui primo libro – L’esperienza interiore – nella traduzione italiana (Dedalo 1978) è stato introdotto da Ghezzi. In questa introduzione c’è un passo che ha molto in comune col film. “Il susseguirsi della scrittura dell’E. I. è un cumulo di letture che diventano riscritture… Un inseguimento di maschere per non tradire da sé solo se stesso o l’esperienza di sé”. Un film razionalmente compiuto dall’inizio alla fine, dove ogni sequenza sta al servizio del tutto (l’idea-guida o “l’ideologia-totalità”) e s’impone come quintessenza dei singoli momenti, tradisce la singolarità del particolare, che è sacrificato in nome dell’apparenza estetica e della sua presunta unità formale. Il principio aleatorio che presiede al montaggio in questo caso salvaguarda il momento soggettivo contro la cornice estetica riassunta nell’espressione “idea-guida”.
KRAUS, GHEZZI (E GAGLIARDO)
Ma questo titolo rinvia inevitabilmente al celebre titolo omonimo di Karl Kraus del 1915 Gli ultimi giorni dell’umanità, dove in una monumentale demonica drammaturgia è esposta la condizione umana di fronte alla prima guerra mondiale, e dove le voci umane occupano la scena in un sussulto allucinatorio. Ma cosa sono “gli ultimi giorni dell’umanità”? Il confronto con Kraus è inevitabile. La distanza è forte, tuttavia vi è qualcosa in comune: se il dramma in Kraus muove da allucinazioni acustiche, quelle di Ghezzi e Gagliardo sono allucinazioni cinetiche. I sensi della vista e dell’udito sono chiamati in causa quasi a profetizzare l’imminente catastrofe. Sia nel dramma di Kraus come nel film accade che è l’insurrezione del linguaggio contro le sue stesse leggi a essere in gioco. Questa singolare insurrezione (percettiva e visiva) agisce con lo strumento del decollage: le sequenze del film sono strappate alla loro consequenzialità narrativa. La macchina da presa è tutt’uno con l’occhio che si perde nei labirinti di un archivio.
L’ILLUSIONE DELLA FINE
In questo tratto liminare, in questo confine incerto tra immagine e occhio, ciò che arriva al limite non va confuso con la “fine”, semmai con il fatto che la fine non ha senso, perché il “senso” viene sempre dopo. Detto in altre parole: la mancanza di una narrazione organica implica il rifiuto di comunicare, ma questo rifiuto è un mezzo di comunicazione più potente, ostile alle convenzioni, ma più potente. Perché è l’occhio che si fa macchina, interamente. Come accade in certa scrittura si tratta di fare a meno della frase senza cessare di capirsi. Tattilità dello sguardo? Forse. Tuttavia, le immagini di eruzioni che fanno da prologo al film contribuiscono a dare il fascino dell’allucinazione. L’occhio di Ghezzi non esiste fuori dall’universo filmico. Perché in fondo la presunzione di vedere il mondo come dato reale, separato, oggettivo, è essa stessa una illusione. Scorrendo le immagini entriamo in un sentiero non solo biografico, ma anche oggettivo; questa oggettività consiste nello scomporre l’orgoglio della luce – va ricordato che l’originario titolo del film era Luce in macchina – così come Baudelaire scompose le metafore della poesia, che inaugurarono la modernità.
MALINCONIE ISTANTANEE
Si tratta di far risaltare il filmico, l’immagine di un’immagine di una immagine… Qui la differenza tra arte e vita è dissolta. Un mondo “onnivoyeur” direbbe Lacan, e l’occhio che guarda dal buco della serratura una giovane donna, questo occhio apre e chiude le sequenze de Gli ultimi giorni dell’umanità. Le citazioni si accumulano come un’enorme frase incompiuta, ciò che in letteratura è senza punteggiatura, come accade nel poema di Mallarmé Un coup de dés. Accenni, citazioni, fraseggi filmici interrotti che agiscono per pura contiguità, come accadeva nelle immagini surrealiste. Chi cerca un senso compiuto, una trama, una storia, è perso per questo film. Il mondo che resta è un mondo senza senso, senza l’illusione dell’unità, e ogni possibile sguardo che si posasse su di esso come memoria di un “mondo perduto”, esisterebbe solo come una “malinconia istantanea”, come afferma Ghezzi nel film.
Marcello Faletra
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