“Do Not Expect Too Much From The End Of The World”. L’ennesimo capolavoro di Radu Jude
Alla 76esima edizione del Festival di Locarno, l’opera del pluripremiato regista rumeno concorre nella categoria principale e si aggiudica il Premio della Giuria. Il suo film è il racconto spietato e dissacrante della società odierna, e una riflessione tragicomica sull’umanità alla deriva
“Old blanket, which shall I cover, my head or my feet?”. Un’operazione chirurgica dissacrante è l’ultimo film dell’ormai indiscusso maestro Radu Jude (Bucarest, 1977), che si era già guadagnato un Orso a Berlino per Badluck Banging or Loony Porn nel 2021 e che quest’ anno – in lizza per il Pardo D’Oro a Locarno – vince il Premio della Giuria. Do Not Expect Too Much From The End Of The World ha tenuto il pubblico incollato alle sedie e allo schermo per quasi tre ore. Tre ore che si sentono tutte e che non pesano neanche per un secondo perché, come accade sempre nella cinematografia del regista rumeno, ogni inquadratura ha la forza di spiazzarti. Di farti ridere di un riso che poi scopri grottesco perché nasconde tutta la bruttura storica della macchi(n)a umana, di ieri e di oggi. D’altronde il dialogo con il passato è costante per un autore che fa dell’archivio più che un mezzo un nuovo linguaggio, e non solo quando racconta direttamente Ceausescu. Un racconto che ha raggiunto il suo apice con Uppercase Print (2020), tra archivi televisivi e messa in scena teatrale dei file della Securitate.
Il nuovo film di Radu Jude
Per questo il presente può ancora dialogare con La Corazzata Potëmkin nel suo ultimo caustico cortometraggio The Potemkinists, e per questo il 2023 della Angela di Do Not Expect Too Much From The End Of The World può tranquillamente dialogare con il 1981 della protagonista del film di Lucian Bratu Angela Moves On. Le due donne omonime vengono presentate alternativamente (e nella realtà/finzione dell’opera metacinematografica del 2023 si incontreranno per davvero) mentre vanno avanti, forse in un senso più fisico che metaforico, come criceti che corrono sulla ruota. La antica gira Bucarest nel suo taxi tutto il giorno come nella sua macchina lo fa la moderna, giovane assistente alla produzione per una compagnia che realizza video. Tra le mura di vetro dei finestrini delle loro auto e negli appartamenti sfatti di Bucarest (che ricordano l’operazione del regista in Everybody in Our Family) scorrono le immagini di una Romania che di fatto in quarant’anni non è cambiata molto, tanto per cominciare dal sessismo imperante.
Il cinema politico di Radu Jude
È con precisione, abitudine e pazienza che Jude, come un anatomopatologo, sventra la carcassa del nostro mondo, proprio quando stiamo respirando l’ipotesi di una sua fine nucleare…O climatica. E lo fa senza lasciare fuori niente. Dalla guerra in Ucraina e dal putinismo, al ricordo del Covid, alla manipolazione dei media, all’arte al servizio del potere e allo schiacciamento – come sempre – dei deboli e degli ultimi, divorati dal sistema e con le mani legate. Il tutto sullo sfondo inframezzato di Tik Tok e del rimbambimento cerebrale che l’era dei social media ha comportato. Una patina di tragicomico straniante avvolge tutto ciò e lo amalgama all’interno di un discorso che tocca tutti questi aspetti. All’(apparente) esaurirsi di molte dittature, ne è subentrata una di fatto onnicomprensiva e non meno corrosiva, forse solo più nascosta, o più lenta. Quella del capitalismo, qui descritto nei suoi ingranaggi più raffinati, mostrandone ogni sua pedina. Anche quelle apparentemente scollegate dallo scacchiere. Tematica che è un topos nella cinematografia del regista rumeno, già affrontata perfettamente in The Happiest Girl in The World, che tra l’altro condivide con l’opera attuale l’ambientazione del set pubblicitario.
Radu Jude e il suo cinema tragico e ironico
Il film di oggi infatti ruota attorno a Forbidden Planet, spot promozionale per la sicurezza sul lavoro che un’azienda austriaca ha commissionato alla casa di produzione video rumena per cui lavora Angela. Per quasi tutta la durata del film, la vediamo girare di casa in casa a intervistare le vittime di incidenti sul lavoro dovuti per lo più alla scarsa manutenzione del luogo, e che sperano di essere “selezionati”. Si scoprirà solo verso il finale di come l’agognata selezione non sia per vincere una causa e ricevere un rimborso economico che ripaghi del male fisico ricevuto, ma proprio l’opposto. Un modo per accusare i pesci piccoli e proteggere quelli grossi. Il video infatti – all’insaputa dei suoi protagonisti – non è un j’accuse ma un’autoaccusa. I fatti vengono modificati, o meglio la prospettiva su questi viene alterata tramite supposte interpretazioni che danno al film un tono quasi kafkiano. Ed ecco che il giovane operaio destinato per sempre a una carrozzina – dopo essere stato schiacciato in ogni senso da un sistema marcio e da un’azienda che se ne frega delle sorti dei dipendenti – viene trasformato improvvisamente nel colpevole della sua stessa sorte. Così lo vediamo nel finale. Quella inquadratura a camera fissa che dura per quasi quaranta minuti, in cui il quadro famigliare viene ritratto mentre firma la sua condanna a morte. Una firma senza lettere. Come quei cartelli ispirati al video di Subterrenean Homesick Blues di Bob Dylan. Solo che questi sono verdi e vuoti perché devono essere riempiti in post-produzione dalle parole che il committente dell’opera riterrà valide. D’altronde sono proprio le immagini e la loro influenza sulla realtà – pubblica e privata – ad aver ossessionato Jude sin dai tempi del suo primo cortometraggio Lampa Cu Ciacula, con il racconto di un padre e un figlio che trasportano un televisore rotto in città perché venga aggiustato.
Il nuovo film di Radu Jude. Una riflessione sul presente
Il film premiato a Locarno non è altro che una tessera più sofisticata di questo tassello, con cui il regista decide di completare il mosaico dell’umanità di oggi: spiaccicata come un insetto dai suoi stessi simili. Così come quei 600 morti di incidenti stradali disseminati lungo un breve tratto di strada, di cui il regista mostra le lapidi. Croci sperdute in mezzo a un campo di grano, all’asfalto, mangiate dalla natura o corrose dal tempo. Le mostra in silenzio, una dietro l’altra, in una sequenza della durata di una manciata di minuti che testimonia di come il regista rumeno non sia solo spietato ma anche pietoso, non solo dissacrante, ma anche sacro. Do Not Expect Too Much Of The End Of The World è infatti una liturgia, una messa funebre laica, sardonica, tragica, feroce e intelligentissima allo stesso tempo, per commemorare l’imminente morte del nostro pianeta in cancrena. Thomas Stern Eliot diceva: “è questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento”. Con Radu Jude capiamo che probabilmente finirà con un selfie, o un video Tik Tok. Con qualche filtro strano. Siamo davvero grotteschi.
Bianca Montanaro
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