“Essential Truths Of The Lake”. Lav Diaz tra regia e impegno politico
Il pluripremiato regista filippino è stato presente al Festival di Locarno, dove ha gareggiato in competizione principale con un film tragico, ma pieno di speranza. Ne abbiamo parlato con lui
Non smette di reinventarsi, alla soglia dei 65 anni, Lav Diaz (Datu Paglas, 1958). Il cineasta filippino presenta a Locarno un film come sempre di fortissimo impatto visivo, che ricalca alcuni dei topoi ricorrenti nella sua cinematografia. Dopo il Pardo d’Oro vinto nel 2014 con From What is Before, Diaz porta alla kermesse svizzera il prequel naturale di When The Waves are Gone, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2022. Hermes Papauran torna di nuovo come protagonista, figura di poliziotto travagliato e ossessionato da un caso irrisolto, ribattezzato dell’“aquila filippina”: l’uccisione della giovane modella e attivista ambientale Esmeralda. L’opera unisce soluzioni di regia diverse, la prima parte è girata in digitale e la seconda in pellicola: a un inizio “pulito”, chiaro e ordinato, corrisponde un finale più sfocato e più “sporco”. Questo per certi versi rispecchia la dualità del cammino fisico e spirituale del detective, la sua parabola involutiva di fronte alla consapevolezza che non troverà mai la verità, ma che deve comunque continuare a cercarla. Per questo il film, apparentemente disperato, è in realtà tragicamente pieno di speranza.
Ne abbiamo parlato con il regista, all’indomani della proiezione stampa del film.
Intervista al regista Lav Diaz
Non è la prima volta che tratti del tema della polizia, ma molto spesso la descrivi come corrotta. Perché questa volta hai deciso di focalizzarti su un “poliziotto buono”, come Hermes, che crede veramente in quello che fa?
Il personaggio non è solo bianco o nero, è più complesso. Hermes è un essere umano che attraversa un conflitto interiore, come tutti noi: abbiamo sempre una parte animale e una parte razionale dentro. E io voglio esplorare questa dualità con Hermes: l’essere umano dilaniato, la complessità della sua natura.
Nel tuo cinema i cadaveri e i corpi, spesso come vittime di Marcos e Duterte, sono molto importanti. Apri questo film proprio con un cadavere, vittima di Duterte (con il cartello “I am a pusher” appeso al collo). Mi è sembrato però che l’aspetto più importante – e forse il vero protagonista del film – sia in realtà l’assenza del corpo. Il film intero è sostanzialmente una ricerca non tanto – o non solo – della verità, ma anche del corpo di Esmeralda, che non verrà mai trovato…
Siamo sempre alla ricerca di qualcosa, di quello che manca. Non è soltanto il corpo, non sono solo i cadaveri, non è solo la presenza di qualcosa. Siamo sempre malati. Nei miei film è sempre una ricerca dell’anima filippina che è stata risucchiata in un abisso. Di niente, di malinconia, di tristezza, di perdita, di disperazione. Risucchiata nella desolazione. Ma c’è speranza.
Quello del tuo film è un finale di speranza? Per il fatto che Hermes, se ha abbandonato la speranza di trovare la verità, si aggrappa a quella di trovare un residuo di umanità?
Il fatto che lui continui a cercare una risposta a questo omicidio irrisolto è proprio un segno di speranza. È una forma di ottimismo.
Il cinema di Lav Diaz. Tra regia e attivismo
Giusto… Prima invece citavi la malattia, un altro degli argomenti cardine della tua cinematografia. Specialmente in questa doppietta di film When The Waves Are Gone ed Essential Truths Of The Lake.
Sì, tutto è un decadimento. Noi marciamo. L’unica verità dell’umanità è la morte. Noi decadiamo, tramontiamo, spariamo, diventiamo polvere. E abbiamo poi questa specie di ironia per cui desideriamo la tristezza, la sofferenza, la malinconia. Siamo sadici.
E secondo te perché?
È la natura umana.
Parliamo della lunghezza dei tuoi film, di cui si discute sempre di più nell’ambito della tua opera. Dopo il 2014 (From What Is Before) e il 2016 (The Woman Who Left) c’è stato un cambiamento: passare da film che arrivavano anche di dieci ore a pellicole più brevi come credi possa influenzare l’esperienza del tuo pubblico? Ora l’approccio in sala può essere meno fisico o viscerale e più cerebrale?
A dire il vero non ho realizzato che fossero diventati più brevi. Forse perché è un progresso naturale, il modo in cui io mi occupo della narrativa e dei personaggi. Quando faccio cinema seguo un modus operandi da romanzo: lascio spazi aperti, seguo i personaggi, la narrativa, scrivo lo script tutti i giorni. Quindi penso che i film siano diventati più corti perché è nella natura del lavoro: non è una cosa deliberata, è proprio un processo organico. Sto lavorando a un film di undici ore per l’anno prossimo.
E perché nella seconda parte di questo film hai usato la pellicola, dopo aver quasi sempre usato il digitale nella tua opera? Stai cercando nuove vie?
Io adoro il 16 mm, ma qui è stato quasi per caso. Ho già usato il 35 mm per alcuni film e ho sognato di ritornare al Super8 e al 16 mm. È come un ritorno alla natura del cinema, ed è fantastico provare questa rinascita. Ritornare da dove sei venuto: il bianco e nero, la celluloide, il metallo pesante della camera. È un’esperienza molto tattile, e io personalmente ho un ottimo rapporto con la macchina da presa. Sono oltretutto un cameraman io stesso, quindi giro molte cose: adesso sto fantasticando sul girare con uno smartphone! È un nuovo medium, ho addirittura visto film fatti con TikTok qui.
Un’ultima domanda. Durante il regime di Duterte facevi film parlando dell’epoca di Marcos, ora con Marcos Jr. (e Sara Duterte), parli di Duterte. Che dici al riguardo?
Marcos Senior è probabilmente il peggior filippino che sia mai esistito. Ha portato il fascismo nel Paese con la dittatura degli Anni ’70 e ’80, ha governato per 24 anni in maniera brutale. E ha imposto una frattura, un trauma che ancora sentiamo: è stato ancora peggio degli anni di colonialismo spagnolo o imperialismo americano. Abbiamo avuto un cosiddetto movimento di liberazione nel 1986, l’abbiamo cacciato… Ma poi sai il cliché: la storia si ripete uguale a se stessa. È arrivato Duterte, un altro presidente davvero brutale: è stato al potere solo per 6 anni, ma ha riabilitato questa ideologia strumentale. È questo il motivo – uno dei motivi – per cui i Marcos sono tornati.
Bianca Montanaro e Marco Romagna
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