L’importanza dei personaggi femminili nei film di Sofia Coppola
In vista dell’uscita in sala del nuovo film ‘Priscilla', ripercorriamo l’eredità della regista americana, dal ‘Giardino delle Vergini Suicide’ a ‘Lost in Translation’
“Ma davvero le donne per essere moderne devono rinunciare al colore rosa, ai cavalli e ai crampi quando nuotano?” declama dal palco l’irriverente Mrs Maisel, nella omonima serie firmata dalla geniale penna di Amy Sherman Palladino. Miriam Maisel, star della stand up comedy, è intelligentissima, arguta, bella, ironica e, soprattutto, ben vestita, i cui outfit favolosi meriterebbero da soli un saggio. Di stoffe pregiate, con scolli a barca, stretti su un vitino da vespa, completi di cappello e accessori. Un guardaroba sconfinato, che fa concorrenza a quello di Barbie. Infatti Greta Gerwig deve aver studiato bene The Marvelous Mrs Maisel,e riflettuto su quella frase che riscatta il rosa, rinnovato vessillo di un femminile che si riscopre, a sorpresa, della stessa tinta. Con valori (forse?) opposti e giusto qualche tono più sù. Pensandoci meglio però, la cabina armadio di Miriam, nella sua cura, ricercatezza, qualità e varietà di tessuti, evoca un riferimento ben più lontano nella storia, ma più vicino e dirompente dal punto di vista cinematografico: la Marie Antoniette (2006) di Sofia Coppola, regina di Francia, ma anche di stile. Come dimenticare la scena delle Converse All Star sullo sfondo di capricciose scarpine in seta? O quella in cui Maria Antonietta si abbandona sulla morbida chaise longue-triclinio, circondata da torte e gelatine colorate in palette con in suoi abiti? (Motivo per cui il film è stato insignito del premio Oscar per i migliori costumi a Milena Canonero). Non solo Palladino e Gerwig, ma tantissime autrici devono tanto a Sofia Coppola, regista che sin dal suo esordio si impone come la voce più affilata dell’eterno femminino su pellicola e che sta per tornare nei cinema con Priscilla, attesissima pellicola che racconta la love story tra Elvis “The King” Presley e la moglie Priscilla (a un anno di distanza dall’uscita del biopic Elvis, diretto da Baz Luhrmann).
L’eredità di Sofia Coppola: uno sguardo “sul femminile”
La ricerca di elementi universali e intangibili che persistono attraverso il tempo e la cultura, nel caso di Coppola riassumibili in grazia trasgressiva mista a consapevole frivolezza. Uno sguardo “sul femminile”, si badi, non “al femminile”. Sofia ha ha dichiarato in più occasioni di non riuscire a guardare film in cui non siano presenti donne. E, continuando con le metafore di stoffa, agli impermeabili beige ha preferito di gran lunga corsetti e crinoline. Del resto, si tende a raccontare ciò che si conosce e in cui ci si specchia. Ne Il Giardino delle Vergini Suicide (1999) – il suo primo film, Lux, una ancora acerba Kirsten Dunst, è la maggiore delle cinque sorelle Lisbon. La tragica e breve esistenza delle ragazze, tutte suicide (non è spoiler, è il titolo), è un pretesto per raccontare i tremori dell’adolescenza, in forma di capelli biondi e panneggi leggeri scomposti dal vento, pathosformeln degli anni sessanta. La ninfa di Warburg rivive così nel mistero del sorriso gentile, ma dai canini aguzzi di Dunst, musa di Sofia Coppola anche nel più maturo e già citato Marie Antoniette. In entrambe le pellicole i personaggi da lei interpretati sono ragazze trasgressive e indipendenti, mal disposte a subire il cattolicesimo repressivo della famiglia -nel primo caso- o le ipocrisie della opulenta corte di Francia, nel secondo. In entrambi i casi Dunst incarna ritratti memorabili di donne che lottano per l’autenticità all’interno di contesti sociali rigidi, in grado di creare degli spazi incantati di autonomia nel loro confino (più o meno dorato).
L’adolescenza vista da Sofia Coppola
L’adolescenza, intesa come femminilità che sboccia, sembra essere il tema che sta più a cuore a Sofia Coppola. Adolescente è Lux, adolescente è Maria Antonietta, adolescenti sono le protagoniste di The Bling Ring (2011); e adolescente è Cleo, la protagonista di Somewhere (Leone d’Oro nel 2010).
In questo film silenzioso e riflessivo il protagonista sarebbe Johnny Marco (Stephen Dorff), un attore in crisi e disamorato della vita. Sarebbe, si sottolinea, perché l’argento vivo e la determinazione di sua figlia Cleo, una Elle Fanning poco più che bambina, spostano l’attenzione, ancora una volta, sul personaggio femminile. La stessa cosa era accaduta qualche anno prima con la Charlotte (Scarlett Johansson) di Lost in Translation (2003), pellicola che grazie ad un Oscar per la migliore sceneggiatura originale e una cascata di altri premi ha proiettato Sofia Coppola nell’Olimpo delle firme del cinema d’autore. Anche qui la vera protagonista risulta essere la Johansson, nonostante su carta e su schermo è Bob Harris (Bill Murray), attore famoso, annoiato e disconnesso. Sensazione che viene esaltata da un contesto straniante, che è quello del perdersi in una cultura e lingua altra, la coloratissima e incomprensibile Tokyo. Johansson, un decennio dopo, ha poi prestato la voce a Her (2011), capolavoro di Spike Jonze. Che – siamo sicuri – nel delineare Samantha, entità eterna, onnisciente e onnipresente, archetipo del femminile in forma di OS, ha reso tributo al cinema di Sofia Coppola. Neanche a dirlo, sua ex moglie.
Mariagrazia Pontorno
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