Io Capitano di Matteo Garrone. Il film capolavoro fiaba sulla Storia che avanza
Il capolavoro di Matteo Garrone è una fiaba in lingua Wolof dal messaggio universale. Un film sui migranti ma soprattutto sulla libertà di sognare. Senza dubbio il suo Pinocchio più riuscito, in attesa della Notte degli Oscar
Saper leggere la contemporaneità è più difficile che prevedere il futuro, e l’esercizio interpretativo dell’oggi è la vera dote divinatoria. Lo sa bene Matteo Garrone, tra i pochi autori dotati della luccicanza del presente, e lo dimostra ancora una volta con Io Capitano, pellicola appena premiata a Venezia con il Leone d’Argento per la miglior regia e da qualche giorno scelta per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar. La scarnificata verità del suo cinema passa al setaccio la complessità del reale, mentre i trascorsi di pittore e di tennista fanno capolino attraverso il gusto cromatico, la geometria dell’immagine e la disciplina poetica. Trattandosi di una storia di migranti, l’autore è uscito peraltro indenne dai rischi di buonismo e autocompiacimento, il gatto e la volpe nel percorso di ogni artista. Non, dunque, il finto e comodo attivismo supportato dai colossi del lusso, bensì la capacità di essere l’altro, soffrirne la vita per mesi e anni, amarlo come se stessi. Facendo del mestiere del cinema vera e propria missione.
Tra Pinocchio e il Vangelo
In uno slalom spericolato tra Pinocchio e il Vangelo, il regista si è messo così a servizio di una storia da cui siamo assuefatti almeno da un decennio, in sfida aperta con la legge di Fuller, che nel giornalismo individua un rapporto di proporzionalità tra il numero di vittime di un disastro e la notiziabilità dello stesso. Per essere più chiari, le oltre tremila vittime delle torri gemelle – decedute nel cuore dell’Occidente a seguito di un attacco aereo a favore di media, per Stockhausen la più grande opera d’arte mai esistita – nella borsa dell’ascolto valgono più degli almeno venticinquemila migranti sinora annegati a pochi metri dalle spiagge bandiera blu delle coste europee del Mediterraneo. Come quella dei Conigli a Lampedusa, in Sicilia, luogo di approdo delle carrette del mare e di ovideposizione della assonante tartaruga Caretta Caretta, in via di estinzione. Le une e le altre – le carrette e le Carette – osservate alla giusta distanza da bagnanti solidali in ode ad ogni anti-specismo. A giudicare dal successo al botteghino, Garrone la regola di Fuller è riuscito ad aggirarla, sfruttandone a vantaggio del film gli stessi meccanismi. Dando non solo un nome e un volto a uomini e donne altrimenti anonimi ma, cosa più importante, scegliendo un modello di migrante che non aderisse agli stereotipi pietisti. Motivo questo che ha fatto storcere il naso, in egual misura, ai puristi delle migrazioni e ai sostenitori degli aiutiamoli a casa loro / dimentichiamoli in mare.
L’Odissea di Seydou in Io Capitano
“Io Capitano, Io Capitano”, urla Seydou, il giovane protagonista della pellicola di Garrone, proprio di fronte alla costa di Lampedusa, in una scena che merita di entrare nella storia del cinema. Seydou e Moussa, (Seydou Sarr, Moustapha Fall), sono due ragazzi belli e carismatici, che vivono dignitosamente e in serenità in un villaggio del Senegal. Non manca loro l’affetto della famiglia e della comunità, né un tetto sulla testa. Insomma, tutto fuorché dei disperati. Eppure, scelgono di lasciare il paese, perché sognano un successo da rapper nell’Occidente che visualizzano sui loro smartphones. Li aspetta un viaggio crudele e disseminato di orrore, che dal Senegal attraverso la savana dell’Africa centrale e poi il deserto del Sahara li porterà sino alle coste della Libia, per salpare infine alla volta dell’Italia, da cui, in controcampo, siamo soliti vedere l’ultima fase, cioè l’approdo. Garrone restituisce dignità al sogno di due adolescenti, che, come tutti i loro coetanei, hanno diritto di muoversi in libertà per viaggiare all’estero. Lo sappiamo almeno dai tempi di Omero che il solletico dell’ignoto vince sulla dolcezza delle mura domestiche, e che nello scarto tra l’andare o il restare risiede la libertà che ci rende padroni del nostro destino. È dunque sul crinale del paradosso che il regista ha costruito la sua Odissea contemporanea – declinata in storia di formazione – per amplificare una stortura divenuta oramai pensiero comune.
Io Capitano a Venezia80
Cioè che il migrante abbia diritto di asilo solo se perseguitato politico o in fuga da guerra o carestie. Un razzismo occulto, che ammette i bisogni primari ma non il sogno. Questo ha voluto sottolineare il regista, sopraffatto dalla commozione ma anche da una sorta di sincero imbarazzo al momento della premiazione a Venezia. Lo sguardo autentico del suo cinema si è così dimostrato rivoluzionario nel presentarci la più scomoda delle verità, Seydou come essere sognante e pieno di appeal. Che non ambisce alla mera sopravvivenza del nuovo schiavismo legalizzato, ma a firmare autografi ai bianchi. Al pari del Seydou Sarr attore, statuario, ben vestito, sorridente, vincitore del premio Mastroianni come miglior giovane rivelazione di Venezia 80.
La pellicola presenta dei marcati tratti onirici e fiabeschi. Garrone ha consapevolmente rinunciato a qualsiasi pretesa documentaristica in favore di un topos letterario, il viaggio simbolico e solitario dell’eroe, decodificato nelle sue funzioni principali già un secolo fa da Propp nel suo Morfologia della fiaba e poco più tardi da Greimas ne La semiotica delle passioni. In una tradizione che dalla tragedia greca passa alle Mille e una Notte e infine, si faceva cenno, a Pinocchio. Dal punto di vista stilistico, visivo e narrativo, tale scelta si risolve nel non distogliere mai la camera da Seydou, che in ogni inquadratura, persino nei campi lunghi nel deserto, è riconoscibile dalla silhouette in lontananza. Un film che parla solo il linguaggio dell’arte, in purezza. Quindi politicissimo, proprio perché non intestabile a nessun partito. Non parla di migranti, Io Capitano, ma della Storia che avanza, dei movimenti di popoli. Ciclici, inevitabili e inarrestabili. Della voglia di vivere, essere felici e diventare – appunto – Capitani della propria esistenza. È arrivato il turno di Seydou, niente e nessuno potrà fermarlo.
Mariagrazia Pontorno
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