Il cinema è una questione di ritmo. Sul film Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
Il film di Scorsese è un esempio di un cinema “all’antica”, del cinema cioè come si faceva una volta, e magari oggi non si fa o non si vuole più fare. Ecco perché
La visione in sala Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese rientra assolutamente nel discorso che stiamo portando avanti in queste settimane.
Intanto, di fronte alle critiche rivolte alla lunghezza del film (tre ore e mezza), il regista ha giustamente ribattuto: “la gente è capace di stare cinque ore a guardare roba alla TV, e non può stare seduta in una sala cinematografica a guardare un’opera di più di tre ore?” Già in questa frase c’è gran parte del senso di ciò che il regista va dicendo ormai da anni, nei confronti dei “contenuti confezionati” e del cinema dei supereroi.
Ciò che si può guardare sullo schermo, infatti, è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a quello schema e a quel modello. Un noir che non è un noir, in cui la storia originale (l’indagine della FBI sugli omicidi degli indiani Osage in Oklahoma) viene relegata in un piano di fatto del tutto marginale, per adottare invece il punto di vista della co-protagonista nativa, la straordinaria Lily Gladstone (Mollie Burkhart).
Il film Killers of the Flower Moon di Scorsese
È un film, dunque, che cambia completamente almeno tre volte, in maniera del tutto spontanea e naturale ma anche, ovviamente (essendo Scorsese Scorsese…), virtuosistica. Il che giustifica peraltro pienamente la durata: lo spettatore ha quindi la possibilità concreta di immergersi completamente nel mondo della Nazione Osage, nella sua esperienza del tempo, e nel conflitto profondo scatenato dai diritti petroliferi con l’avidità strutturale del capitalismo. Dunque, i livelli e gli strati sono molteplici, intrecciati l’uno all’altro, dipendenti uno dall’altro, e questo tipo di complessità è davvero l’unica strada per restituire la ricchezza e le sfumature che Scorsese aveva in mente fin dall’inizio. Si comprende anche come il film sia anche il modo per costruire una relazione profonda con la comunità, la Nazione Osage, di cui vengono restituiti rituali e visioni del mondo senza alcuno scadimento retorico o didascalico.
Perché questo, in fondo, è il senso dell’opera: raccontare una vicenda coinvolgente, e nel farlo guidarci alla scoperta e all’esplorazione di un intero mondo, di una cultura, di una civiltà; mettere in scena i rapporti di forza tra questa civiltà e l’altra, quella ormai dominante, studiare la nascita di questo dominio e spiegarne almeno in parte le ragioni.
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Le zone d’ombra nel film di Martin Scorsese
E – contemporaneamente – salvaguardare tutte le ambiguità all’interno di questi rapporti, le zone d’ombra. Quindi, la relazione tra lo zio diabolico Robert De Niro (William Hale) e il nipote un po’ tonto Leonardo Di Caprio (Ernest Burkhart) scandaglia tutte le gradazioni della crudeltà, della responsabilità e dell’assenza di responsabilità. D’altra parte, proprio la figura di Mollie rappresenta il perno tragico attorno a cui ruota imperturbabile l’intero meccanismo.
Dunque, Killers of the Flower Moon semplicemente non poteva durare meno di quanto dura – e lo stesso ovviamente possiamo dire di The Irishman, Casino, Gangs of New York, The Aviator, o se è per questo del tanto bistrattato The Wolf of Wall Street. Tutti questi film sono a ben guardare un unico film, compongono un solo discorso lungo decenni. Una riflessione estremamente originale sulle origini del capitalismo occidentale, sui suoi caratteri costitutivi e su quello che accade quando questi caratteri si scontrano con valori preesistenti.
Killers è forse una delle migliori prove di Scorsese, perché ci lascia comprendere fino in fondo come la durata significhi non solo le cose da dire (molte), ma anche e soprattutto il come: è una questione, principalmente, di ritmo. Il cinema è una questione di ritmo. E questo ritmo ci permette di cogliere ciò che è sempre più difficile cogliere nel cinema contemporaneo, vale a dire l’evoluzione dei personaggi: abbiamo l’occasione infatti di vederli cambiare, essere diversi da ciò che erano (in questo senso, la prova di Di Caprio si rivela molto significativa, toccando ogni possibile variazione emotiva e rievocando in modo molto strano ma decisamente affascinante le fragilità e le fratture dei suoi precedenti personaggi scorsesiani, compreso l’indimenticabile, stordito e violento Edward Daniels/Andrew Laeddis di Shutter Island).
Forse, il film di Scorsese è anche un esempio di un cinema “all’antica”, del cinema cioè come si faceva una volta, e magari oggi non si fa o non si vuole più fare: se è così, è anche un buon esempio di ciò che un’opera d’arte dovrebbe essere, ieri come oggi.
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…