La fine del #Metoo con Jennifer Aniston e Reese Witherspoon nella serie cult The Morning Show
Il dietro le quinte del programma del mattino più famoso d’America torna a far vibrare gli animi post pandemici e femministi per concentrarsi su razzismo, diseguaglianze e tycoon nell’era digitale, con un cast sempre più stellare da Jon Hamm a Stephen Fry
Lo chiamavano #MeToo e andava di moda, e anche tanto, purtroppo come tutte le mode poi passano. Ma allora no, allora non era una moda, era la cronistoria corale di un malessere sociale globale e quindi, perché non farne una serie? Ma non limitiamoci alla prevedibile cronaca-biografica-iperrealista, punzecchiamola dell’immancabile Eva contro Eva che alla fine si ravvede, spintonando via il patriarcato in diretta tv. Come? Denudando il meschino re-presidente che aveva nascosto il violentatore seriale. In sintesi, questa è la prima stagione di The Morning Show, serie che esce poco dopo il #MeToo, cavalcandone le tematiche con una incredibile Jennifer Aniston/Alex e una altrettanto intensa Reese Witherspoon/Bradley.
Appunto le due Eva, entrambe produttrici della serie ed esserlo, in America, porta alcuni vantaggi, come il diritto di “parola” sulla sceneggiatura o sulla regia e si sente. In una sorta di racconto meta-televisivo, ci sono due generazioni di donne a confronto, che prima si guardano in cagnesco e poi diventano esse stesse due dobermann alleate e affamate di vendetta contro quel perfido rottweiler che è Mitch, co-conduttore del Morning Show insieme a Alex. Storia ispirata all’anchorman del Today Show, Matt Lauer, che nel 2017 viene denunciato per molestie da una collega. E poi arriva la II serie con la pandemia tra presunti pentimenti dell’abusatore seriale, una storia lesbica con outing forzato e una colpevole connivenza di Alex, che con quel Mitch ci ha dormito volontariamente. Non dimentichiamo un suicidio, un po’ di razzismo e la presenza del machiavellico antieroe, Cory/Billy Crudup, Ad di UBA e UBA+. Piattaforma streaming che durante il Covid fa boom, e post Covid, come tante piattaforme, fa un altro boom, ma stavolta di perdite.
Una prestige soap del XXI secolo prodotta e diretta da donne
Dopo il mea culpa in preda ai brividi del Covid, Alex salva il Network, conduce un programma alla Oprha, diventa il simbolo di Trust/Fede. Mentre Bradley dirige il Tg, diventa portavoce di Truth/Verità e vince un premio giornalistico, perché lei all’assalto del Campidoglio del 6 gennaio c’era, con tanto di sotteso intrigo da thriller. Perché la terza stagione, la quarta è già confermata, mette nel pentolone seriale parecchi ingredienti per la miglior “prestige soap” del XXI secolo. Genere, diffuso sulle piattaforme, che Apple ha innalzato vincendo Emmy, SAG e Critics’ Choice Award, grazie a tematiche attuali e universali, un cast di prim’ordine, una fotografia patinata, una regia impeccabile e una scrittura che saccheggia dall’attualità con i tempi cinematografici da puro mainstream. Tempi garantiti dalla showrunner della I e II stagione, Kerry Ehrin (Bates Motel e Moonlighting), sostituita nella III da Charlotte Stoudt (Frammenti di lei), mentre alla regia c’è Mimi Leder (E.R. e Peacemaker). Tutte donne che non si limitano ad accusare il genere maschile, ma ne analizzano gli “stilemi” con cui mettono in atto i soliti sotterfugi alla conquista di soldi e potere, trasformando “400 anni di razzismo in un’arma, solo per chiudere un accordo miliardario”.
La nemesi è maschio, il caprio espiatorio è femmina
Arriva un altro “cattivo”, alleato e nemesi di Cory, Paul/Jon Hamm, il Don Draper di Mad Men, qui una via di mezzo tra Jeff Bezos e Elon Musk. E infatti, prima cerca di mandare Alex su un missile nello spazio, pubblicità e news in diretta tv, poi tenta di acquisire UBA+, come Bezos il Washington Post e Musk Twitter. Ma la trama si infittisce con un ransomware e i giornalisti non fanno più notizia, diventano notizia con mail e documenti imbarazzanti. Entriamo nell’era della disparità salariale, “la UBA è una piantagione, solo che ha l’assicurazione dentistica”, del razzismo istituzionalizzato della presidente donna e bianca, “Ho fatto una battuta di cattivo gusto e adesso quella battuta è tutta la mia storia?”, nei confronti della host black, Chris/Nicole Beharie. Le donne vogliono di più, finalmente, senza però rinunciare al solito mea culpa introspettivo al femminile, che ha il suo apice nello scontro generazionale e razziale tra alleanze e ricatti. Una terza serie che gioca meno alla Newsroom (recuperate la serie di Sorkin se vi piacciono le news, gli intrighi e l’etica) e più alla Billions meets Succession, con una minor potenza drammaturgica, ma una maggior contemporaneità. D’altra parte, cosa narrare quando le nuove molecole del reale su cui si forgiano le cellule del futuro-mondo sono i Big Data?
Barbara Frigerio
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