The Curse. La serie tv che smaschera i cliché dell’arte contemporanea e del design
Satira e drama su Paramount+ per decostruire tv del dolore, gentrificazione, capitalismo green, appropriazione culturale e rapporto di coppia. Serve altro per vederla?
“Io ti maledico!” lo dice una bambina a un adulto, un monito, una punizione, una denuncia, una vendetta. E non poteva che essere una Gen Alpha a maledire un Millennial, nel tempo dell’apoteosi della faida generazionale. Faida che ha origine dalle maschere grottesche di Plauto per arrivare al meme “Ok Boomer”, che storicizza la linea di demarcazione tra età digitali e analogiche. The Curse, aka La Maledizione, prende il nome proprio da questo momento iconico della serie: Asher/Nathan Fielder, protagonista nonché autore e attore cult del panorama indie americano, si offre di comprare delle bibite a una bimba, in un gesto di beneficienza a favore di camera, per Fliplanthropy, il reality di cui è protagonista nella serie stessa, facendo da subito un po’ di metatelevisione. Ma ha solo 100 dollari e, finite le riprese, chiede i soldi indietro alla bimba, promettendole poi 20 dollari, ma lei non si fida e lo maledice.
The Curse. La scena emblema della serie
Così, in una singola scena, viene enunciato il paradigma di tutta la serie, la condanna “dal futuro adulto” all’ipocrisia del presente, che ambisce solo a fare washing dei molti problemi della società odierna. Un pensiero magico che fa paura perché prende di mira l’indifferenza solipsista del privilegio bianco, lo sfruttamento economico dei ceti emarginati, l’appropriazione culturale, la gentrificazione pervasiva, l’attivismo ecologico, il capitalismo green, la filantropia “social”. Da qui il nome del docureality Fliplanthropy, parodia di Flip or Flop-Una coppia in affari, una sorta di Extreme Makeover – Home Edition per biechi interessi personali, trasmesso da HGTV, autentico canale americano in stile Real Time. E una coppia sono anche i protagonisti di The Curse, Asher/Fieldere Whitney, il premio Oscar Emma Stone, a cui bastano un paio di espressioni per scandagliare le emozioni del suo personaggio, una trentenne wasp con velleità da designer. E in effetti, la serie ruota attorno alla vita della coppia, che progetta e rivende, grazie allo show Fliplanthropy, le case passive a zero carbonio, green, ecosostenibili e riflettenti (poveri uccellini che vi si schiantano). Peccato che le case siano una copia esatta di quelle del vero artista e designer Doug Aitken.
The Curse e gli “artisti”
La serie innesca così la riflessione/decostruzione sull’arte tra esibizioni stereotipate e performance cliché (dal ready made alla Marcel Duchamp ai “gesti” alla Marina Abramović), dove artisti “costruiti” per la serie si confondono con artisti reali. Non si tralascia neppure l’appropriazione culturale, che va oltre e diventa FOMO artistica della bianca privilegiata, esclusa dalla nativa americana che ruba mascotte e urla in una tenda, creando una performance assai credibile. E allora ci si chiede cosa è arte e chi sfrutta chi? E se volete rispondere, o almeno provarci, vedetevi The Square di Ruben Östlund e L’uomo che vendette la sua pelle di Kaouther Ben Hania. Però qui c’è di più, c’è la gentrificazione di Española, cittadina del New Mexico, abitata da nativi e latini, ma con un twist. Infatti, i due protagonisti, con il loro reality Fliplanthropy, non sembrano voler cacciare gli autoctoni, al contrario, gli concedono case passive pagando loro il gap d’affitto, aprono negozi hipster che gli indigeni non potranno mai permettersi, ma in cui potranno lavorare. Peccato sia tutto “recitato” e “temporary”, grazie a modelli ingaggiati per forzare la capitalizzazione green, come da mantra tv della coppia “salviamo il Pianeta un kilowatt alla volta”.
The Curse. Trasformare la nostra vita in uno schermo
Schermo che, finché ci sarà ancora un po’ di privacy, celerà l’intimità di Asher e Whitney, fatta di disfunzione sessuale, desideri inespressi, conflitti e manipolazione, perché The Curse smembra anche la coppia, rivelandone tutte le sue fragilità. Una serie complessa, intricata, ma allo stesso tempo semplice e immediata grazie al duo di attori e creatori Benny Safdie (Oppenheimer), qui nei panni del producer senza scrupoli, e Nathan Fielder, esperto nel parodiare, portando agli estremi docureality come Reharsel e Nathan For You dove, per salvare un bar, si inventa persino un frozen yogurt al gusto di escrementi. Ma insieme, i due si spingono oltre e, in The Curse, costringono una donna, ammalata di cancro, a piangere con gocce al mentolo, svelando tutta la crudeltà di chi produce la tv del dolore (se vi piace la tematica recuperate Unreal). E dietro una serie così ai limiti del reale, con una regia fatta di scene lunghe e angolazioni voyeuristiche da cinéma vérité, non poteva che esserci Showtime e A24, lo studio cult di Everything Everywhere All At Once, Euphoria, Lady Bird, Moonlight. Una menzione speciale alla colonna sonora di Daniel Lopatin, alias Oneohtrix Point Never, e del tastierista jazz d’avanguardia John Medeski. Insomma, una di quelle serie che se la perdete, vi maledirete!
Barbara Frigerio
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