“Dahomey” alla Berlinale 74. Il film sulla restituzione di opere d’arte al Benin
Un documentario in prima persona, in cui è l’opera d’arte stessa a raccontare la propria storia. Una narrazione sofferta e coraggiosa sul processo di decolonizzazione di cui con troppo ritardo si inizia a parlare nei musei d’Europa
Il passato coloniale è una ferita aperta per molti Paesi e una cicatrice indelebile per altri: Dahomey se ne assume tutto il dolore. E lo fa attraverso la voce di un’opera d’arte, la numero 26, che racconta, in prima persona, il suo lungo viaggio di ritorno, dalla Francia al Benin. La sua è una voce d’oltretomba che ci ricorda chi è – Re Ghezom – e ci redarguisce, perché nessuno può essere ridotto a un numero, neppure un’opera d’arte con il suo vissuto, la sua storia, un’anima, un passato, una vita. Una vita che è stata rinchiusa per anni nell’oscurità, in Francia, dentro le mura di un museo. E che ora per il suo viaggio di ritorno, è obbligata a rientrare dentro l’oscurità di una scatola, una specie di tomba della resurrezione/restituzione. L’opera viene infatti trasportata oltreoceano, costretta a galleggiare di nuovo tra le acque del passato. E ancora una volta, è destinata a soffrire, a risentire, rivivere le paure, le conquiste, la violenza, lo sfruttamento dei suoi avi, della sua gente. Ma “oggi”, per la precisione nel 2021, la Francia decide di restituire 26 opere: solo una goccia se paragonate all’oceano di 7mila opere che ancora detiene. Il film diventa così la storia di un popolo, il regno di Dahomey, divenuto poi Repubblica dell’Africa occidentale del Benin, derubato dalle truppe coloniali francesi nel 1892.
La Francia e le opere d’arte trafugate in Benin alla fine dell’Ottocento
Perché la Francia restituisce solo 26 opere su 7mila? E lo fa senza vergogna, praticamente senza sensi di colpa? Solo per lavarsi la coscienza, o forse per motivi di propaganda politica? Queste sono solo alcune delle domande che la gente del Benin si pone. E il documentario passa con disinvoltura dalla narrazione onirica della voce della statua di Re Ghezom a quella documentaristica di un popolo. Ci ritroviamo in una sala conferenze, in un’università, dove chiunque può parlare, può porre domande, può fare dichiarazioni. Ci sono esperti e studenti, giovani appassionati e attivisti rivoluzionari. E, va detto, quanta democrazia in questo comizio, quante libere riflessioni, che noi oggi, in Italia e forse anche in Francia, ci dimentichiamo di fare o di ascoltare. Si parla di cultura, di tradizione, di religione, di arte, di libertà, di ingiustizia e se ne parla con calore, con energia, con una forza che in Occidente abbiamo dimenticato. L’energia traspare da queste discussioni, dai visi accalorati, dalle voci intense. Ed è qualcosa di potente, di incredibile, che restituisce un film da vedere anche solo per sentire l’amore di un popolo verso le proprie radici, seppur sradicate.
In “Dahomey” la coscienza di una statua incarna quella di un popolo
Lo spirito degli antenati vive dentro queste opere d’arte e la gente lo capisce, lo sente. Lo sentiamo anche noi, attraverso la poesia dell’imballaggio, la voce greve del re, l’urlo di una nazione che invoca se stessa, chiedendo indietro, con un grido razionale e maturo, le proprie statue, i propri troni, le proprie porte intagliate. La regista, Diop, mette insieme in soli 67 minuti la storia di un popolo, del colonialismo, della sua arte, ma anche il suo presente, la sua fierezza, la sua esistenza, nonostante i soprusi, la povertà, il sistema iniquo a livello economico e culturale. Ma il Benin non si arrende, come non si sono arrese le 26 opere che sono sopravvissute per tornare a casa. Basta con l’oblio, con la rimozione, con l’abbandono, è ora di iniziare a parlare, a ricordare, a pretendere quello che è nostro. Non c’è retorica, non c’è piaggeria, non c’è morale, c’è solo la voglia di reagire. L’Occidente dorme, il resto del mondo si risveglia, il colonialismo è hi-tech, ma la consapevolezza è un passo avanti. Scena cult: “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”… La statua viene issata e trasportata da un gruppo di operai, mentre la gente balla, canta, festeggia il ritorno, questa volta sulla terra, la propria terra, delle proprie radici, a cui tenersi attaccati per non cadere di nuovo nel baratro di un’oscura e disumana civiltà.
Barbara Frigerio
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