L’Italia in concorso alla Berlinale 74 con “Another End” di Piero Messina
Dopo “L’attesa”, il regista siciliano torna al tema della morte e del lutto, in un presente ingannevolmente distopico, con un film sul coraggio di affrontare la perdita
Ci sono dei film di cui parlare e altri che vuoi solo sentire, vivere, ricordare… Another End di Piero Messina (Caltagirone, 1981) è uno di questi. Non che non si debba parlarne, che non lo si debba approfondire, argomentare, ma prima lo si deve percepire, lo si deve lasciare andare dentro di sé. E il film di questo tratta, di lasciare andare, di avere il coraggio di affrontare la perdita e di superarla. Come? Semplice, con una tecnologia che permette di trapiantare i ricordi della persona amata dentro un altro corpo, quello di qualcuno che, per qualche giorno, si presta a vivere con la mente del defunto. Ma non immaginate Black Mirror, non c’è fantascienza, né distopia; sì certo, c’è un po’ di tecnologia, di riflessione filosofica, ma è tutto nella misura dell’intimità, dell’emozione, della disperazione della perdita, della presenza tangibile dell’assenza. Tutto solo per aiutare chi rimane a superare la perdita stessa, o forse a procrastinarla.
“Another End”. Una sinfonia perfetta tra regia, sceneggiatura e interpretazione
Sal, un Gael Garcia Bernal a cui basta un solo sguardo per trasmettere tutto il dolore per la morte della moglie Zoe (una sublime Renate Reinsve), viene convinto dalla sorella Ebe, una melanconica Bérénice Bejo, a far ricorso alla simulazione. Ebe soffre troppo nel vederlo bloccato dentro quell’immenso dolore e così le sofferenze si moltiplicano, si sommano, si incastrano dentro corpi che si accumulano in enormi magazzini della memoria. Il corpo nuovo e i ricordi vecchi si fondono, si confondono, diradandosi in una nuova emozione. Il regista torna così al tema della perdita: e se in L’attesa, con Juliette Binoche, l’assenza quasi immobilizzava, qui l’assenza muove. Il ricordo non paralizza, al contrario rianima, restituisce la vita. E lo fa per chiunque, giovani e meno giovani, perché la mancanza e la sofferenza non hanno età, e i ricordi sopravvivono in chi rimane. Ma allora che fare, se non nutrire il vuoto con gli stessi ricordi? Come fa il personaggio di Olivia Williams, che decide di “riesumare” sia la figlia che il marito, per poi chiedersi “Cosa vuol dire essere qui?”.
“Another End” pone domande, senza dare risposte
Un film che lavora sulla percezione, gioca con la mente, la inganna, facendole vedere ciò che appare ma che non è, o forse è insieme. Una persona è il suo corpo o i suoi ricordi? Siamo in grado di andare oltre il condizionamento del vissuto? L’amore può superare ciò che fino a quel momento credeva di sapere? Cosa davvero ci manca di chi amiamo? Loro o quel che eravamo? Un film immenso che apre mondi, ma non li chiude e lo fa con le scenografie dei paesaggi urbani contemporanei, aperti ma anche claustrofobici, o negli interni che rendono i ricordi intimi e universali. Vi si aggiunga la fotografia realista, ma nello stesso tempo astratta e la musica avvolgente che scalda i toni freddi. Insomma, si tratta di un film che traccia un solco nella nostra memoria, lasciandone un ricordo indelebile! Scena cult: Una notte al museo… dei ricordi, i protagonisti camminano tra le sale di una mostra, guardando i numerosi schermi che propongono in loop i ricordi di chi ha deciso di lasciare ai posteri l’unica vera opera d’arte, la propria vita.
Barbara Frigerio
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