I dimenticati dell’arte. Uberto Paolo Quintavalle, il film maledetto e Pasolini
Scrittore, giornalista al Corriere della Sera e attore in Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. La storia maledetta e dimenticata di Quintavalle
La sua breve e piccola fama si deve ad un ruolo in uno dei rari film maledetti nella storia del cinema italiano: Salò o le 120 giornate di Sodoma, girato da Pier Paolo Pasolini nel 1975, l’anno della sua tragica e misteriosa morte. Aristocratico e intellettuale, Uberto Paolo Quintavalle (1926-1997) non si fece alcun problema ad interpretare la parte dell’Eccellenza, il magistrato Curval, senza aver avuto in precedenza nessuna esperienza come attore. Uberto era figlio di Bruno Antonio, conte di Monasterolo d’Adda, e di Paola Marelli, e dopo un esordio nel mondo del tennis -il fratello Ferruccio era stato campione nazionale- iniziò una carriera giornalistica come collaboratore del Corriere della Sera nei primi anni Cinquanta: nella redazione del quotidiano conobbe Pasolini, del quale divenne amico e confidente. Esordì come scrittore nel 1953, con il romanzo La festa, pubblicato da Guanda nel 1953, seguito da Capitale mancata (1959) e Tutti compromessi (1961), usciti con Feltrinelli, per poi passare alla Longanesi con Rito ambrosiano, rito romano (1963), Il viaggiatore supercompresso (1964) e Code senza lucertola (1965).
Salò o le 120 giornate di Sodoma
Nei primi anni Settanta fu uno dei primi a discutere con Pasolini l’idea del film Salò, per raccontarne la realizzazione in Giornate di Sodoma, uscito nel 1976 per SugarCo. Si tratta di un “diario di lavorazione” nel quale si racconta in diretta la nascita e l’evoluzione della pellicola, girata a Mantova tra la fine dell’inverno e la primavera del 1974. “Nel film, forse per la prima volta, ha fatto uso di diverse trovate grottesche, di tocchi buffi. Molte volte”, racconta Quintavalle, “richiedeva a noi attori una recitazione così stralunata e sopra le righe che avevamo l’impressione che volesse buttare in farsa certe scene atroci. Siccome non ci spiegava le sue intenzioni né quello che voleva da noi, limitandosi alle disposizioni esteriori, non capivamo mai se stessimo recitando un film in chiave tragica o una grottesca parodia. All’ora di cena a Bologna in genere si eclissava, ma a Mantova cenava quasi sempre in uno dei due ristoranti così che, anche se non si era combinato di mangiare con lui, si finiva facilmente per trovarlo, sempre accompagnato da almeno uno dei ragazzi della sua corte”.
Il senso dell’umorismo di Pasolini
Testimone oculare degli ultimi mesi di vita di Pasolini, Quintavalle ne racconta la personalità in maniera diretta e oggettiva: “era raro vederlo allegro. Il suo senso dell’umorismo, se così possiamo chiamarlo, era particolare. Ricordo che una volta raccontò a me, e a qualche altro attore un sogno che aveva avuto, in cui noi entravamo, che gli pareva estremamente buffo e che lo faceva molto ridere. Ora che ci penso, è forse l’unica volta che l’ho visto veramente divertito, ma eravamo tutti così occupati a cercar di capire dove fosse e in che cosa consistesse quella comicità che gli pareva così clamorosa da non riuscire proprio a partecipare al suo sollazzo. Non ricordo di cosa si trattasse, solo a che a tutti i presenti era sembrato un aneddoto senza capo né coda”. Nel libro Qualcosa di scritto, Emanuele Trevi scrive che Quintavalle era stato scelto da Pasolini come attore “unicamente per il suo aspetto fisico, da nobiluomo di provincia che sa godersi la vita”. Inutile dire che la fama di film maledetto ha coinvolto sia il libro-ad oggi introvabile- che il suo autore , che morì a New York per un infarto, lasciando la moglie Josephine e quattro figli.
Ludovico Pratesi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati