Milioni di italiani sono pirati audiovisivi. Ma non tutti commettono lo stesso reato
Il 40% degli italiani si è macchiato di pirateria audiovisiva nel 2023. Tuttavia, fare di tutta l’erba un fascio è sbagliato e la soluzione, più che nelle azioni coercitive, potrebbe risiedere in un perfezionamento del mercato
Dati trasmessi in questi giorni evidenziano i danni inferti dal sistema audiovisivo dal fenomeno della pirateria audiovisiva. Quasi 4 italiani su 10 nel 2023 hanno fruito di contenuti audiovisivi in modo non legittimo, con una perdita di fatturato per l’economia italiana stimata pari a circa 2 miliardi di euro. Ognuno di quei circa 319 milioni di atti di pirateria rappresenta un comportamento che è opportuno arginare, ma sarebbe tuttavia piuttosto superficiale equiparare tutti gli atti sotto il profilo economico, ed etico.
Ci sono pirati e pirati
L’articolo propone una riflessione che analizza anche la struttura dell’offerta di contenuti identificando, ad esempio, una serie di prodotti cinematografici che dovrebbero essere resi disponibili gratuitamente dalle piattaforme pubbliche (come la RAI) o rese accessibili mediante importanti profilazioni di mercato (come la possibilità di “pagare” in contenuti pubblicitari o in sondaggi). Pur mantenendo l’attenzione sulla fruizione lecita, le persone che accedono a contenuti mediante traiettorie non ufficiali per guardare la partita, o i film presenti in sala, commettono un tipo di illecito ben differente da chi accede ad un film d’autore, uscito in sala 5 o 10 anni fa, che non sia direttamente presente all’interno dei cataloghi delle principali piattaforme.
Il ruolo delle piattaforme streaming
Sembra una distinzione sottile, ma sotto certi punti di vista, si tratta di condizioni molto distanti tra loro. L’atto è lo stesso. Ma differenti ne sono le premesse. Prendiamo ad esempio una persona che abitualmente, fruisce di contenuti cinematografici in modo regolare, attraverso le principali piattaforme di streaming. Parliamo di Netflix(con circa 9 milioni di abbonati), Prime Video (6,3 milioni di abbonati) o Disney Plus (3,5 milioni di abbonati). Ora, ipotizziamo che questa stessa persona, che paga una certa cifra mensile (in alcuni casi 9 euro) voglia vedere un film che non è incluso nel proprio catalogo. A quel punto, il nostro buon utente cerca il titolo online e le condizioni possono essere tendenzialmente due: il film è inserito nel catalogo di un’altra piattaforma oppure il film è disponibile soltanto per noleggio e acquisto. In quest’ultimo caso, l’unica scelta è quella di noleggiare il film, sostenendo una spesa di 4-5 euro, del tutto sproporzionata non solo rispetto al costo dell’abbonamento mensile che già paga, ma anche rispetto all’ipotesi di un nuovo abbonamento (che pagherebbe sicuramente in più, ma che consentirebbe per un mese di avere a disposizione un intero catalogo).
La pirateria è dovuta anche all’imperfezione del mercato
Questa condizione conduce in genere a due tipologie di soluzioni: l’utente cambia film da guardare o, se è disponibile attraverso canali illegali, decide di guardarne una versione piratata. Malgrado un atto illecito resti tale, è tuttavia da considerare che in questo caso specifico, l’illecito è indirettamente causato da una imperfetta condizione di mercato: se quel film fosse stato disponibile in una piattaforma, un utente abituale avrebbe preferito poterlo vedere attraverso un canale legittimo, se non per motivi etici, per motivi pratici e di qualità dell’esperienza audiovisiva.
Le piattaforme nazionali possono essere d’aiuto?
In questa condizione, più che agire attraverso dinamiche di natura repressiva, si può agire riducendo il costo sociale, attraverso azioni che colmino questo vuoto di mercato, andando a creare delle strategie che consentano di poter potenziare anche il posizionamento di piattaforme nazionali che non possono competere con i giganti dello streaming mondiale. In condizioni come queste, ad esempio, la RAI, che riceve il pagamento del canone anche da parte di persone che guardano soltanto contenuti online, potrebbe avviare delle promozioni che includano, all’interno del canone annuale, la possibilità di vedere in streaming cinque film all’anno tra quelli non disponibili nelle piattaforme internazionali, accordandosi, con i distributori, per il pagamento delle sole visioni effettuate. Al contrario Mediaset, potrebbe vincolare la visione del film ad azioni pubblicitarie attive: non solo uno spot, ma anche un sondaggio, la partecipazione a questionari mirati, la sottoscrizione a newsletter di società che già acquistano slot pubblicitari sui propri canali. In un caso, così come nell’altro, si andrebbe a colmare una domanda di contenuti illegali indotta da una condizione di scelta percepita come iniqua dall’utente, potenziando allo stesso tempo la percezione di tali soggetti all’interno dello scenario online. Perché è vero che i film non inclusi nelle piattaforme rispondono a specifiche nicchie di mercato, ma è anche vero che le nicchie di mercato (soprattutto nel mondo dell’audiovisivo) sono davvero tantissime e aggregate, possono fornire dei dati di traffico interessanti, con tutto ciò che ne deriva in termini di introiti pubblicitari aggiuntivi (che si aggiungerebbero, quindi, a quelli che Mediaset potrebbe generare per il “pagamento alternativo” della transazione).
La strada coercitiva non è sempre quella più efficace
Condizioni che poi consentirebbero anche di ridurre l’impatto che tali piattaforme possono avere nella definizione dell’immaginario collettivo, riducendo i costi di lock-in, che ti tengono, in modo cognitivo o in modo monetario, comunque costretto all’interno del catalogo di scelta che hai già pagato. Non tutti i pirati audiovisivi sono uguali. Non per tutti la strada coercitiva è necessariamente la più efficace. Soprattutto, non sempre questa strada è la più “economica”, a livello individuale e collettivo.
Stefano Monti
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