Cose da rivedere in estate? La “trilogia del tempo” di Sergio Leone
Il tempo, la memoria, il ricordo la nostalgia. Con Sergio Leone si inaugura un ciclo di approfondimenti su oggetti culturali da riprendere in mano nell’estate 2024 per capire il presente
La cosiddetta “trilogia del tempo” di Sergio Leone viene composta e realizzata nell’arco di sedici anni, e comprende: C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984). Se si tiene presente che il titolo originario di Giù la testa era C’era una volta la rivoluzione, si realizza già la coerenza poetica e creativa dell’intero progetto. Il “c’era una volta” è la guida artistica di un regista che nella narrazione come chiave per la creazione del mito riponeva ogni sua fiducia, il nucleo di tutta la sua opera: affinato il suo metodo di racconto con la “trilogia del dollaro” (Per un pugno di dollari, 1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto, il cattivo, 1966), infatti, Leone mette mano al lavoro della sua esistenza.
Il tempo nel cinema di Sergio Leone
Il tempo non è semplicemente al centro tematicamente dei tre film: in essi, si propone un’intera gestione del tempo come racconto e del racconto come tempo, come scansione non cronologica – come via maestra, dunque, del raccontare. Questo approfondimento del metodo segna anche una progressiva fuoriuscita dal genere dello spaghetti-western, verso il film storico e infine il gangster-movie esistenziale: lo spaghetti-western, del resto, era stato per Leone fin dall’inizio solo un mezzo per dire ciò che aveva da dire (e non un fine come è stato per molti degli epigoni).
Se in C’era una volta il West questo rapporto con il tempo si esprime soprattutto attraverso il flashback, che ci illustra il trauma di Armonica (Charles Bronson) e la brutalità di Frank (Henry Fonda), che dal passato si proiettano sul presente e reclamano la vendetta (un tema che diventerà poi fondamentale in Quentin Tarantino), già in Giù la testa la faccenda si complica. Anche qui, la musica gioca un ruolo essenziale – non solo in chiave di evocazione, ma perché si fa vero e proprio conduttore attraverso, avanti e indietro, il tempo.
Il film Giù la testa e la rivoluzione
Qui c’è la rivoluzione messicana, ma c’è anche quella irlandese dell’IRA (Irish Republican Army), a cui Sean Mallory (James Coburn) è appartenuto – anche se storicamente i conti con gli anni non tornano, ma tant’è. I flashback da uno diventano molteplici, e declinano le sfumature emotive che in seguito occuperanno il centro della scena: nostalgia, rimpianto, rimorso, amicizia tradita, delusione. Tutto ciò che avrebbe potuto essere, e non è stato. Calato, peraltro, in un qui e ora che tende costantemente a svanire. L’amicizia tradita dal quasi-fratello Nolan viene riscattata nel presente dall’improbabile compagno Juan (Rod Steiger).
L’ultima frase pronunciata da Juan dopo la morte di Sean (“E adesso io?”) ci guida verso il capolavoro epico e il testamento creativo di Sergio Leone, C’era una volta in America, uno dei film più importanti e intensi della storia del cinema. E adesso io? potrebbe infatti essere a ragion veduta la frase che perseguita a David “Noodles” Aaronson (Robert De Niro) nel corso dei suoi trentacinque anni di fuga e sparizione e senso di colpa: se non fosse che proprio Noodles è uno dei personaggi più complessi e sfuggenti mai apparsi sullo schermo. (Al massimo, infatti, la sua battuta più rappresentativa rimane quel “Sono andato a letto presto” con cui risponde a Fat Moe che gli ha appena chiesto cosa abbia fatto in tutti questi anni).
Qui, il tempo si disintegra, si frantuma, si disperde e si ricompone costantemente. Se ci fate caso, il film non ha un vero e proprio presente a cui tornare, a cui ancorarsi: piuttosto, la narrazione è un continuo andare avanti e indietro, perdersi e ritrovarsi, nel tempo.
1933. 1968. 1918. 1968. 1930. 1968. 1932. 1968. 1933.
Lo spettatore è disorientato ma al tempo stesso catturato in questo flusso continuo, in questo vortice che lo avvolge sempre più all’interno della vicenda. Il flashback diventa qualcos’altro, qualcosa di profondamente diverso, non solo grazie alla musica ma soprattutto grazie alle immagini e al montaggio. I “balzi” avvengono in maniera naturale e sorprendente, fino al punto di fondere tra loro punti lontanissimi della memoria.
Il cinema e l’inizio del postmoderno
L’aspetto forse più interessante consiste nel vedere come, proprio all’inizio del postmoderno che fa della nostalgia storica e culturale il suo asse (dal George Lucas di American Graffiti e persino di Star Wars, attualizzazione delle vecchie serie di Flash Gordon, al Peter Bogdanovich de L’ultimo spettacolo e Paper Moon al Federico Fellini di Roma e Amarcord, fino al Robert Zemeckis di Ritorno al futuro, uscito nelle sale un anno dopo C’era una volta in America), Leone la eviti accuratamente come strumento. Il punto non è affatto la nostalgia, ma la memoria. O piuttosto, la rievocazione del passato. Riportare in vita e alla luce ricordi morti, amici morti, amori morti – per poterli finalmente seppellire (le immagini legate alla riesumazione costellano l’intero film).
Questo tipo di rapporto con il tempo richiede una gestione che è tanto epica quanto la vicenda raccontata dal film. Letteralmente, non c’è alcuna distinzione tra passato presente e futuro: presenti sono infatti tutti equivalenti e compresenti, almeno nella mente di Noodles: e questa mente seleziona anche i tempi che vanno eliminati, cancellati come inesistenti, mai esistiti. È questo il senso del suo rifiuto, alla fine del film, di chiamare “Max” colui che è e rimarrà sempre il senatore Bailey (James Woods). Lo dice chiaramente, del resto, nel confronto finale: “Vede, signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita… e invece fu ucciso. Volle farsi uccidere. Era una grande amicizia. Andò male a lui e andò male anche a me. Buonanotte signor Bailey. Io spero che quella sua inchiesta si risolva in nulla, sarebbe un peccato che il lavoro della sua vita andasse sprecato.”
Il tema del ricordo in C’era una volta in America
Noodles, che è scappato, non è realmente fuggito dalla propria vita come ha fatto invece Max (e come, in parte, ha fatto anche Deborah). Ciò che non avevo mai veramente compreso né la prima volta che ho visto il film in tv a sette anni, né le altre successive, e che capisco invece solo ora, è che lui ha scelto di vivere con i rimorsi, i rimpianti e i sensi di colpa: in questo senso, è l’unico vero custode dei ricordi e delle memorie, degli amici scomparsi così come di quelli ancora in vita. Ed è quindi anche l’unico in grado di buttarli via, di farli scomparire come se non fossero mai esistiti (è questo il senso del primo piano alla fine della scena sul retro del camion dei rifiuti, che sembra abbia risucchiato Max-Bailey).
In realtà, la grande storia di questa grande amicizia si interrompe molto prima dell’imbroglio nel 1933, e cioè, di fatto, nell’attimo stesso in cui il piccolo Dominic viene ucciso da Bugsy; da lì in poi, Max sarà sempre più divorato dalla sua ambizione e dalla sua avidità, allontanandosi progressivamente da Noodles. Così, l’immagine perfetta, l’immagine cristallizzata per sempre nel passato, nel presente e nel futuro è davvero quello in cui i cinque amici attraversano Washington Street a Brooklyn sotto il Ponte di Manhattan (non a caso, la locandina del film). La vita è un istante, che appare e subito scompare – e il racconto, cioè l’arte, è l’unico strumento per conservarla, per mantenerla in vita.
Oppure, invece, ciò che vediamo è tutto un sogno di Noodles nella fumeria d’oppio; una teoria che, a distanza di quarant’anni, non ha perso il suo fascino. (In questo senso, C’era una volta in Americasarebbe un film di fantascienza tanto quanto un gangster-movie.)
Christian Caliandro
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