La retorica del mollare Roma: minaccia, realtà o topos cinematografico?

Quello di dire addio alla Città Eterna è un motivetto minacciato e mai affrontato dai romani stessi. Vivisezioniamolo nelle sue interpretazioni culturali, da Carlo Verdone a Remo Remotti, passando per Paolo Sorrentino

Non ne posso più. Ci penso davvero, due o tre volte a settimana: famme scappa’ via. Non è un problema solo mio, conosco tanti amici che stanno valutando concretamente di andarsene da Roma. È la prima volta che succede”. Lo sfogo di Carlo Verdone disperato per le condizioni di Roma. Quali? Stavolta è bastato il minimo sindacale, spropositata invece la reazione. 
L’intento radicale dell’espressione “Lasciare Roma” mette subito tristezza. Celebriamo le consolari che portano a Roma, nessuno conosce quella inversa dell’addio. Quanto c’è di ponderato, di strappo, di pregresso in sospeso in uno sfogo simile? Liberazione da un fastidio insopportabile? Affrancamento stile vado a vivere da solo, svuotamento esistenziale, esaurimento di occasioni? Quanto invece fa parte di una retorica, il dibattito sul dibattito su Roma, che ridiscute ogni giorno se stessa come se la grande città fosse un gigantesco taxi da cui scendere e salire a piacimento? 

La pax romana al prezzo della stessa Roma

Di sicuro, siccome non si può infilare il nome di una città nel discorso senza che questo rimanga profondamente modificato, lasciare da cittadino significa anche togliere la parola “Roma” da qualsiasi tema, questione, argomento. Dalla vita quotidiana alla narrazione, compresa quella cattiva, sarebbe la fine del discorso sulla città. È questa dunque la pax romana? A quale prezzo? Se è vero che non ci si immerge due volte nello stesso fiume, lasciare significa non immergersi più nell’Urbe, non appartenerle più, che resta il vero privilegio comune, non quello dei quartieri. Se poi l’appartenenza è di famiglia il peso è doppio.

Carlo Verdone1 La retorica del mollare Roma: minaccia, realtà o topos cinematografico?
Carlo Verdone

Le parole di Libero de Libero

Il critico d’arte Libero de Libero faceva differenza tra la nostalgia e l’ansia di lasciare Roma. “All’improvviso, dentro di noi si scioglie una corrente remota e nella sua onda trascorrono confusamente come relitti luoghi goduti ormai inafferrabili: è un movimento tellurico che ci travolge e tuttavia il nostro essere si ricompone con la stessa rapidità che lo sconvolse. Questa è la nostalgia”. E poi dice: “ma c’è un’ansia di rivedere un luogo, dopo un lungo o breve soggiorno da cui ci strapparono le circostanze: essa non dura l’attimo di quella corrente per continuare col suo lento stillicidio sino a diventare pena. È una pena che cresce non diversa da un ciuffo d’erba che senza tregua si rinnovi tra le crepe di un muro, e quel muro è un intimo recinto, dentro il quale una parte di noi vive prigioniera. Mai è il termine di tanta pena per chi abbandona Roma”.
Forse per questo di tutti i fondali romani “lasciare Roma” è quello solo accennato, minacciato con grande rumore, ma subito rientrato e mai veramente affrontato. Mai una grande mostra, un’esposizione, una rassegna a riguardo. Niente installazioni, niente performance, niente bandi pubblici per sollecitare la riflessione. “Lasciare Roma” è la palude dell’Agro mai bonificata, terreno ostile, da eremiti, all’opposto della popolatissima palestra della minaccia antiberlusconiana di abbandonare l’Italia.

Un Romano che lascia Roma ne “La grande bellezza” di Sorrentino

In realtà il Verdone attore ha già lasciato Roma, lo ha fatto nel film premio Oscar La grande bellezza. Solo che Sorrentino ha tagliato le ragioni della grande delusione che spingono il personaggio di Romano all’addio. Ci fu battaglia? Fu vera sconfitta o inadeguatezza? O solo copione da intrattenimento? Non è dato sapere, perché la furba pigra metafisica di Sorrentino non ha voluto accollarsi nulla di Roma, figuriamoci il destino di un autore in crisi impersonato invece dal massimo mattatore della città dopo Proietti.
In una intervista Verdone ha raccontato le due scene tagliate con l’epilogo del suo personaggio, “non stanno neanche negli extra del dvd”. Romano non riesce a fare breccia nella donna dei suoi desideri, nemmeno quando raccoglie applausi a teatro mentre legge i suoi testi, la donna sta fissa sul blackberry a chattare per fatti suoi, anche quando lui la riaccompagna a casa. Esasperato dall’assenza, Romano perde le staffe, e la scarica davanti all’Ara Coeli. Poi ci ripensa, torna indietro per chiederle scusa. Ma lei per glaciale ripicca prima lo fa sedere accanto poi gli concede un gesto di forte intimità. Romano si accorge che la ragazza gli sta “facendo la carità, ti faccio contento stasera, perché ho visto che ti sei arrabbiato e stressato, il teatro l’hai fatto per me ma io non ti ho filato”. Umiliato e offeso nell’amore e a livello professionale, Romano fugge a dare a Tony la notizia del suo addio alla città che abbiamo visto al cinema: “Roma mi ha molto deluso”.

La grande bellezza
La grande bellezza

Gianfranco Rosi, Nanni Moretti e Remo Remotti sul “lasciare Roma”

Anche il Sacro GRA di Rosi non aveva indagato i destini della fauna umana incontrata ai margini, preferendo una metafisica al limite del naif. L’Anguillaro sotto il ponte di Mezzocammino era un uomo respinto dalla città o strategicamente si era fermato un passo prima del GRA? Sconfitto o comunque con piede agganciato al grande anello come tante zone della città. Nanni Moretti, grande moralista, si era fermato a chiedere perché negli Anni Sessanta quando “Roma era bellissima” la gente si fosse trasferita a Casal Palocco. Rosi non se l’è chiesto.
Ogni sfogo alla Verdone ha un precedente illustre. Solo che Remo Remotti di Mamma Roma addio ne ha fatto una canzone, grazie al remix dei Recycle, diventata poi inno capitolino, un esorcismo da cantare consapevoli di ciò che vuol dire lasciare Roma. Un addio alla città del dopoguerra, un inventario stratificato della città, un dettagliatissimo spiegone definitivo di piazze, negozi, cognomi, abitudini, di anfratti, che oggi resta come documento orale. Ma paradossalmente a Remotti in partenza per l’India stava stretta anche la nuova Roma modernissima che si radunava proprio sotto al Pincio, il luogo dove nel 1987 per la prima volta Remotti declamò “Mamma Roma addio” davanti a una telecamera facendola scoprire. La Roma delle gallerie e gli atelier del Babuino, Ripetta, Sistina e Margutta, di Plinio de Martiis e della nuova generazione bella e dannata degli artisti pop, di Irene Brin e L’obelisco, della rivoluzione di Palma Bucarelli alla Gnam. Pure di tutto questo Remotti fece un fagotto e andò via, salvo poi tornare.

Roma e i romani: dove finiscono le parole e cominciano i fatti

Verdone ha scritto una memoria interessante sulla rossa casa di famiglia sopra ai portici sul lungotevere altezza ponte Sisto (La casa sopra i portici, Bompiani). Casa che oggi vede dalla nuova dimora terrazzata di Monteverde. Non c’è bisogno di scomodare l’abusato cliché centro vs periferia, è ovvio che la Roma di queste distanze famigliari minime e di questi tetti prestigiosi e spettacolari è la città spot pubblicitario dove tutti vorremmo vivere, la cura, l’anticorpo di tutti avremmo bisogno, ma non è una colpa, né dei desideri né per chi ci vive. A patto però che non diventi una bolla urbana fantascientifica che a contatto con la realtà vissuta da tutti si irrigidisca fino a dichiarare di voler lasciare Roma. Insomma, la città dell’altro privilegio, quello urbanistico, potrebbe farsi sentire di più sul tema, oltre che incassare applausi e tributi. Far valere la propria autorevolezza, responsabilizzare i romani sulla città, far rumore diversamente dal malessere confidato in una intervista, prendere iniziativa. Altrimenti, rovesciando la famosa citazione, viene il dubbio: ma lo sfogo di Verdone ci serve o non ci serve?

Stefano Ciavatta

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Stefano Ciavatta

Stefano Ciavatta

Giornalista. Scrive di gente e cose di Roma. Writer, talk, consulenze, ricerche, storie.

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