Elegia americana, ovvero della politica impolitica. J.D. Vance, Trump e il film di Ron Howard
Nell’elegia americana di J.D Vance (e Donald Trump) c’è un mondo fatto di successo, capitalismo e un immaginario postmoderno. Ciò che manca è l’idea del progresso
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“Il luogo da cui veniamo è chi siamo,
J. D. VANCE
ma scegliamo ogni giorno chi vogliamo diventare”
Per questa settimana volevo scrivere il pezzo su Kim Gordon e i Melvins che ho in mente da un paio di mesi, ma lo farò in seguito. Nel frattempo, ho pensato che la faccenda dell’incontro/fusione/incrocio tra Tolkien e la cultura hillbilly di J. D. Vance meritasse almeno un approfondimento. Già mentre scrivevo l’ultimo pezzo, infatti, questa mescolanza mi sembrava quantomeno singolare, e a suo modo affascinante – proprio perché improbabile come poche.
L’elegia americana nel film di Ron Howard
Ho cominciato a rifletterci, e in attesa di leggere il libro (ma, onestamente, non so se ne ho proprio voglia…) ho visto su Netflix il film di Ron Howard, prodotto nel 2020 dallo stesso Vance e impreziosito dalle interpretazioni di Glenn Close e Amy Adams: mi sono così accorto che i due mondi non sono poi così lontani come sembrano a prima vista, innanzitutto perché in entrambi è del tutto assente l’idea di progresso.
Procediamo con ordine. Una delle prime cose che salta all’occhio è che il giovane J.D., studente a Yale alle prese con l’inizio della sua carriera legale e con la diffidenza radicata nei membri della Ivy League, quando deve fare i conti con la difficoltà di sistemare sua madre tossicodipendente in un centro di disintossicazione si scontra con il sistema sanitario americano, gravemente deficitario e totalmente privatizzato.
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Chi è J.D. Vance
Questo evento non spinge affatto il futuro senatore – e candidato alla vicepresidenza – a impegnarsi per una sanità almeno parzialmente pubblica, e a favore per esempio degli svantaggiati hillbilly di cui si sente alfiere. No. Perché il futuro senatore, nel film, appare unicamente concentrato sul farsi una posizione; classicamente, sul “diventare qualcuno”: al punto da comunicare alla sorella di non poter servire a nulla e a nessuno se prima non ottiene quello che vuole. Strana disposizione d’animo (soprattutto se tua madre giace nell’immediato in un letto di motel in preda alla crisi d’astinenza: e infatti, dopo essersi assentato brevemente per comprare da mangiare, la becca in bagno con la siringa pronta all’uso…), ma non così strana se la si considera in un’ottica, in effetti, repubblicana – come cioè il Partito Repubblicano statunitense si presenta oggi. L’unica cosa che conta, da questo punto di vista, è infatti la tua realizzazione, la concretizzazione del tuo progetto, il risultato: in una parola, il successo.
Il successo nell’America Repubblicana
Il successo è l’unico fattore che dà significato all’esistenza individuale e collettiva nell’immaginario collettivo statunitense, praticamente fin dai suoi albori, e ancora di più se possibile nell’ultimo quarantennio. Che, non a caso, è il periodo storico in cui si sono affermati pienamente neoliberismo, reaganismo e (proto)trumpismo: gli Anni Ottanta sono l’epoca fondativa in questo senso, che ha definito i contorni di un intero modo di stare al mondo – e Donald Trump ha buon gioco nel far leva sulla nostalgia per quei “bei tempi andati”, di benessere e prosperità (del tutto illusorie nella realtà, e pagate in seguito a caro prezzo: ma questa è un’altra storia).
Cinema e arte secondo Donald Trump
Ora, se Trump è legato a doppio filo proprio alla dinamica potente e ineludibile della nostalgia, dimensione chiave del postmoderno che ancora tarda a lasciarci e che è di fatto onnipresente nella cultura contemporanea (dalle serie tv al cinema, dalla musica alla moda e alla letteratura, fino all’arte visiva: Hulk Hogan che urla nel microfono TRUMPMANIA!!! mentre si strappa la maglietta durante un comizio del candidato alla presidenza ne è il paradigma definitivo), Vance – il quale è nato nel 1984 – è al di fuori in qualche modo da questo cono d’ombra, pur essendone il prodotto ultimo: egli, e il suo immaginario, rappresentano il ‘nuovo’ in questa diade.
E come è fatto questo nuovo? Il film e il libro ci aiutano ancora una volta. In un significativo flashback scopriamo che la leggendaria nonna Bonnie “Mamaw” si è trasferita con il marito da Jackson in Kentucky, incinta a 13 anni della figlia Beverly, a Middletown, Ohio, non ridente cittadina che però ha conosciuto il suo momento di gloria nel dopoguerra con la fabbrica locale.
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La storia americana nel libro di J.D.Vance
Fabbrica che poi, come moltissime altre in America e in Occidente, chiude lasciando la comunità nella miseria che intravediamo per le strade quando la famiglia ci torna dopo le vacanze estive in Kentucky a fine anni Novanta: dinamica, anche qui, perfettamente neoliberista che però stranamente non porta il giovane JD a elaborare una coscienza di classe, ma che contribuisce invece a inserirlo ancora di più negli ingranaggi dell’affermazione individuale. Ricordiamo en passant a questo proposito che, prima della carriera politica e subito dopo l’avvio di quella legale, Vance fu assunto come broker nel 2017 da Peter Thiel, tycoon delle nuove tecnologie, il quale finanziò poi il suo fondo d’investimento Narya: la legittima voglia di rivalsa sociale si salda cioè unicamente con la logica del capitalismo, e non incontra mai nemmeno per sbaglio la riflessione sui meccanismi più ampi e profondi che causano gli scompensi, oppure se la incontra gli effetti sono a dir poco inquietanti (in questo, la vicenda personale incrocia alla perfezione lo Zeitgeist contemporaneo: la salvezza riguarda me e solo me, mai anche gli altri).
La letteratura americana e la coscienza politica
Quindi, è come se tutta questa epica e mitologia appalachiane, di rudi discendenti di ancor più rudi immigrati scozzesi e nordirlandesi, sboccati cultori della propria indipendenza e del whisky fatto in casa, fossero destinate a non portare mai alla costruzione di un’autentica coscienza politica (come pure avveniva nei romanzi di John Steinbeck, e almeno in parte di William Faulkner), se non quella prepolitica, impolitica o apolitica fatta di rabbia e di rancore per la deindustrializzazione e per la conseguente perdita di posti di lavoro e di potere economico.
Il mondo di riferimento alla cui pancia parlano Trump e J.D. è dunque lo stesso, ma con significative differenze nella modalità: se il primo è metodico nell’aggressività, il secondo fa appello al lato più emotivo della narrazione. Il messaggio elargito costantemente è: “vedete, in fondo io sono uno di voi; ci chiamano bifolchi, ma è solo perché invidiano la nostra forza, che proviene dalla famiglia e dalle tradizioni: io ce l’ho fatta, e sono qui a raccontarvelo – quindi potete farcela anche voi”. Io io io. Con un non detto pesante come un macigno, che però è il perno attorno a cui ruota l’intera ideologia del ‘nuovo’ partito repubblicano (come nella migliore, o peggiore, retorica neo-con): se poi non ce la fate, è solo colpa vostra; non provate a prendervela con le politiche governative, con l’ingiustizia sociale o con l’iniquità nella distribuzione della ricchezza (questi, ça va sans dire, sono i soliti argomenti da pericolosi sovversivi, da radicali di sinistra: da comunisti). No, l’unica soluzione è rappresentata dall’impegno e dal duro lavoro, e se non riesci, se cadi vittima della dipendenza da oppioidi o da alcool, se sei disperato e disoccupato, pazienza.
Il progresso secondo i repubblicani
Del resto, il filosofo-blogger Curtis Yarvin, uno dei riferimenti principali dell’attuale J.D. (un po’ diverso, in effetti, dal ragazzo bonaccione e impacciato che vediamo nel film, interpretato da un Gabriel Basso leggermente inespressivo) ha avuto modo di dirlo in modo chiaro, che più chiaro non si può: “I democratici credono nel progresso, noi no.” “Noi non crediamo nel progresso” (laddove il termine-concetto ‘progresso’ comprende evidentemente anche e soprattutto aiuti concreti, strutturali e non episodici, oltre che alla classe media in via di estinzione ai poveri, ai diseredati, agli svantaggiati – molti dei quali evidentemente anche hillbilly: vuol dire cioè, come sempre, offrire a tutti le medesime possibilità e opportunità, senza distinzione di ceto razza genere o provenienza, mettere tutti nelle condizioni di ricavare il meglio dalla propria esistenza). D’altra parte, stiamo parlando di un’elegia: e a che, o a chi, serve il progresso in un contesto elegiaco?
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…