Il tempo che ci vuole: Francesca Comencini dedica un film al padre
Francesca Comencini torna al cinema con un film universale che parte dalle sue memorie private, dal legame profondo con il padre, con il cinema e in primis con la vita. Ecco una clip esclusiva
Ne Il tempo che ci vuole, nelle sale dal 26 settembre con 01 Distribution, Francesca Comencini attinge alle sue memorie private d’infanzia e di giovinezza per regalare al pubblico un film universale, emozionante, emotivo, che riguarda il cinema e ancor prima la vita.
Le dimensioni del film “Il tempo che ci vuole”
Il film, ambientato tra Roma e Parigi, è il modo che la regista ha scelto e trovato per dire “grazie” al padre Luigi Comencini. Prodotto da Simone Gattoni e Marco Bellocchio per Kavac Film, questo racconto cinematografico gode di più dimensioni: c’è anche quella onirica, che si tinge di rosso e mette quell’ansia che riguarda paure e debolezze appartenenti a tutti.
In Il tempo che ci vuole c’è anche un dentro e un fuori. Nel dentro si svolge la vita privata, quella familiare fatta di abbracci, sorrisi ma anche litigi e ribellioni, e nel fuori c’è l’arte, c’è il cinema, c’è quel mondo reale e immaginifico di un mestiere, quello del regista, che deve guidare la propria troupe alla realizzazione di altri mondi.
A dare volto, corpo e anima ai personaggi principali di questa storia sono Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni, una coppia magnifica che sa restituire al pubblico una profonda e sincera umanità.
L’intervista alla regista e agli attori
Il tempo che ci vuole è un film dichiaratamente personale eppure la protagonista non ha un nome. Come mai questa scelta?
Francesca Comencini: sono chiaramente io però, lo dico e lo rivendico, il film si basa sui ricordi, quelli che mi sono rimasti impressi fino ad ora e che si svolgono come in un teatro nella mia mente. È un film in cui ho cercato umilmente di essere universale, di non fare qualcosa che fosse un album privato di famiglia o che incensasse il fatto di essere una famiglia di cinema. Certo lo siamo lo so, c’è una passione che viene trasmessa, ci sono molti insegnamenti legati a questo che vengono trasmessi, però è anche un film che ho tentato di rendere più universale possibile. Un film sulla relazione tra una figlia e un padre, una relazione molto fondante per qualunque bambina, donna giovane o vecchia che sia… È un qualcosa che ti fonda per tutta la vita, su cui mi sono resa conto che sono stati fatti relativamente pochissimi film.
In una scena del film vediamo Luigi che è sul set di Pinocchio e a un certo punto rivolgendosi alla sua troupe, che girando in strada, ricorda di avere rispetto per la gente che in quel momento li sta accogliendo. Credo che questa sia una lezione importantissima, di vita e di cinema.
Fabrizio Gifuni: Quella è una scena decisiva. Prima la vita e poi il cinema, e se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema. Chiunque scelga come il lavoro della vita quello di rappresentare, evocare attraverso l’immaginazione esistenze, cioè di raccontare l’umano, non può prescindere dalla propria umanità. La storia del cinema è piena di casi, anche di film straordinari che sono entrati nella storia, ma fatti in maniera molto brutale e molto cinica. Luigi Comencini però non era così. E questa più che una sua lezione è un modo di stare al mondo.
Romana Maggiora Vergano: Mi sono detta, appena ho letto quella frase sul copione, ‘che meraviglia, voglio farla mia’. Io sono in un momento d’attrice molto delicato, in cui diciamo sto uscendo un po’ adesso, quindi oltre ad occuparmi dell’azione dell’arte, della recitazione, che è la cosa che più amo e che voglio fare, ho scoperto che ci sono tante altre cose di cui bisogna occuparsi, per cui bisogna sempre tenere a mente che la vita è importantissima, è importantissimo essere presenti nel momento, viverla, sentire le sensazioni anche per poi riportarle nel lavoro. Noi d’altronde raccontiamo la vita e quindi se ce la dimentichiamo poi che cosa raccontiamo?!
Questo è un film che parla anche di fallimento…
Romana Maggiora Vergano: A rendere questo film, secondo me, assolutamente universale non è infatti la storia di Francesca e Luigi, ma è la storia di un padre e una figlia. È l’importanza e la necessità di attraversare una crisi, un fallimento, e di accettarlo, di rialzarsi e cercarsi anche in una caduta. Insomma, di avere il coraggio di attraversarlo insieme questo fallimento.
Sempre il personaggio di Luigi dice ad un certo punto “perché fare un film sulla propria vita, che senso ha”. Con questo film sente di aver disubbidito a suo padre?
Francesca Comencini: Sì, gli ho disubbidito e sono felice di averlo fatto perché ho reso omaggio, credo, al suo ricordo, ed era la cosa che volevo fare e pazienza se da lassù mi sta dicendo che ho fatto male, io l’ho fatto lo stesso perché penso che sia stato un grandissimo regista oltre che per me un grandissimo padre. Per tutta la vita ho cercato sempre una via che fosse la mia, personale, tentando anche di scappare il più possibile dall’idea di essere “la figlia di” e rendendomi anche la vita a volte difficile per trovare la mia strada e per sentirmi all’altezza di poterlo fare. E poi, passati i sessant’anni mi sono detta “però io, quello che profondamente sono dentro di me, è la figlia di quell’uomo lì e di quello che mi ha insegnato, e contro cui mi sono anche ribellata”. Perché sì, sono stata anche una figlia ribelle!
Margherita Bordino
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