Il complotto di Tirana. Una delle più grandi beffe al sistema dell’arte diventa un film
Manfredi Lucibello presenta, in anteprima alla 19esima Festa del Cinema di Roma, il documentario che ricostruisce l'assurda vicenda. È un film libero, lontano dalle regole più rigide del genere
Che cos’è l’arte? Che cos’è il documentario? Un artista quando si può definire tale? E un’opera d’arte? E ancora, cosa è reale e cosa finzione? Chi dice la verità e chi invece mente? Il regista Manfredi Lucibello prima di mettersi al lavoro su Il complotto di Tirana si interroga su molte cose, gli stessi quesiti che lo accompagnano poi nel corso della realizzazione del suo documentario. Si tratta di un racconto cinematografico libero che, con curiosità, ripercorre uno dei casi più assurdi e illuminanti della storia dell’arte contemporanea, una storia che è strettamente correlata con la Biennale di Tirana inaugurata il 14 settembre 2001.
Cosa racconta il complotto di Tirana
È il dicembre 2000 quando il celebre fotografo Oliviero Toscani si fa invitare dal critico d’arte Giancarlo Politi – al tempo a capo della rivista Flash Art – a curare una sezione della prima Biennale di Tirana (sono gli anni in cui l’Albania sta uscendo da un periodo buio, di conflitti, fame e povertà). Toscani decide di presentare quattro artisti controversi, autori di opere scandalose: Dimitri Bioy, presunto pedofilo; Marcello Gavotta, pornografo dichiarato; Bola Equa, attivista ricercata dal governo nigeriano; e Hamid Picardo, fotografo ufficiale di Bin Laden.
Questo è solo l’inizio di quella operazione passata alla storia come, appunto, “il complotto di Tirana”: per tutto il tempo non si trattava infatti del vero Oliviero Toscani ma dell’artista Marco Lavagetto, che spacciandosi per lui si era fatto coinvolgere inventando poi i quattro artisti, di cui aveva sostenuto il lavoro in un testo teorico. Oggi, a oltre vent’anni dalla grande illusione e allo scadere legale della prescrizione, i protagonisti possono finalmente dire la loro verità.
Il complotto di Tirana secondo il regista Manfredi Lucibello
In poco più di un’ora godibilissima di film, Lucibello cuce questa bizzarra vicenda riuscendo a mettere davanti alla sua macchina da presa il fautore di questa operazione sui generis (e forse anche unica), folle e al tempo stesso di rivalsa, Marco Lavagetto Chi è quest’uomo? È un artista? Di cosa si è occupato e di cosa si occupa tutt’ora?
Mettere alla berlina chi aveva in gestione l’arte contemporanea: era questo lo scopo del Complotto di Tirana?
Sì e no. Di certo c’era questa volontà ma accanto a essa anche un senso di riscatto e di rivalsa personale da parte di chi per anni si è sentito escluso da quel sistema, da chi è finito appunto all’ultimo posto della classifica.
“Io non sarei stato così bravo” dice il vero Oliviero Toscani. Quale è stata la sua reazione?
Ai tempi era anche spaventato, e come dargli torto essendo il suo nome comparso accanto alle immagini di Bin Laden. Era una cosa terribile per una persona che vive in Occidente e lavora a stretto contatto con gli Stati Uniti. Toscani era terrorizzato. Oggi invece, con la giusta distanza dall’accaduto, vede questa operazione come qualcosa di profondamente artistico, in cui riconosce una grande opera.
“L’arte non ha morale”, “le grandi opere d’arte mettono in crisi l’artista stesso”, dice sempre Toscani nel documentario. È d’accordo?
Queste parole sono state per me illuminanti. Credo che ci sia il bisogno di superare alcune barriere per realizzare qualcosa di grande, e questo d’altronde ce lo dimostra tutta la storia dell’arte. Per quanto riguarda me, e quindi il cinema, non sono io a dover avere morale ma devono averla i personaggi, coloro che invento e scrivo, altrimenti finirei con il fare film troppo moralisti.
Marco Lavagetto e il complotto di Tirana
Come è andato il suo primo incontro con Marco Lavagetto? È stato diffidente?
Innanzitutto va detto che è stata un’impresa trovare Marco perché non ha il cellulare, o forse ce l’ha e non ha mai voluto darci il suo numero. Una volta trovato, Marco aveva voglia di raccontarsi e quindi ha accettato con entusiasmo di partecipare a questo film. Lui per varie vicende è ormai uscito da quel giro d’arte e, come dice nel documentario il direttore di una galleria con cui ha collaborato, è sparito dai radar dell’arte contemporanea. Con noi è stato disponibile e si è divertito molto a ripercorrere il suo passato e il suo percorso artistico.
Lavagetto, anche per sua stessa ammissione, è stato tante personalità: questa cosa l’ha incuriosito subito o anche spaventato?
Sicuramente incuriosito. Lui come tutti gli artisti non è normale. È stato veramente tutti i personaggi che citiamo nel documentario, non saprei specificare nemmeno il numero delle personalità che è stato e non sono neanche uno psicologo per dare un parere. Alcuni suoi personaggi sono stati veramente oscuri. E io credo che in ognuno di noi ci siano sfumature oscure. Marco, per esorcizzarle in qualche modo, le ha tirate fuori, gli ha dato un nome e un cognome, gli ha costruito una storia e un’identità. Il suo è un continuo gioco dell’arte, un continuo giocare con questi personaggi.
Non è la prima volta che approccia al genere documentario, questa volta però è stato forse più libero dalle regole?
Questo documentario, grazie alla produzione, l’ho fatto in piena libertà e senza alcun tipo di pressione, anche di tempo. Ho iniziato a lavorarci nel 2021 cercando di fare un prodotto che fosse il più vicino possibile a un’operazione artistica e per questo motivo ho scelto di discostarmi anche da certi dogmi e schemi cinematografici.
Ma alla fine, quello che mostra allo spettatore cosa è: una farsa o la verità?
Mettiamola così: è una vera farsa.
Margherita Bordino
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