Fight Club, Matrix, American Psycho e gli altri. Tutti i film che gli uomini del nuovo millennio non hanno capito
Pillola rossa, scazzottate e mascolinità tossica: con i venticinque anni dall'arrivo di Fight Club in Italia, riflettiamo sulle pellicole di fine Anni Novanta e inizio Duemila, e il loro completo fraintendimento da parte delle nuove generazioni di uomini
“Compri mobili. Dici a te stesso, questo è il divano della mia vita. Compri il divano, poi per un paio d’anni sei soddisfatto al pensiero che, dovesse andare tutto storto, almeno hai risolto il problema divano. Poi il giusto servizio di piatti. Poi il letto perfetto. Le tende. Il tappeto. Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te”: sarebbe voluta essere una critica al capitalismo questa frase che Chuck Palaniuk fa pronunciare al personaggio di Tyler Durden nel suo romanzo d’esordio, Fight Club. Una critica alla spersonalizzazione dell’America del cubicolo, che unita al monito sulla radicalizzazione della frustrazione maschile – e all’evidente tensione omoerotica di uomini unti e sudati che si malmenano di nascosto la notte –, doveva spingere i maschi del nuovo millennio a chiedersi quale fosse il proprio destino, dubitare di una crescente mancanza di senso. Risvegliarsi. Eppure, quando il 29 ottobre di venticinque anni fa uscì Fight Club nelle sale italiane, nessuno aveva capito quanto il film (di cui a breve uscirà il sequel) sarebbe diventato un punto di riferimento per quegli uomini che radicalizzati lo sono già, quegli incel, “celibi involontari”, e alpha men che minacciano le donne di morte, si scambiano le loro foto intime a tradimento, e, quando tutto va male, imbracciano un’arma.
Gli uomini dei film della fine degli Anni Novanta e dei primi Duemila
Fight Club sarebbe dovuto essere un indicatore del crescente disagio degli uomini di fine millennio, e nonostante sia stato inizialmente un piccolo fallimento al box office è stato ripreso con ampio successo negli anni dalle fasce giovanili di estrema destra: questo nonostante il regista David Fincher “non l’avesse pensato per loro”, come ha commentato qualche anno fa al Los Angeles Times. E non è l’unico film uscito in quell’anno e poi diventato un cult presso il pubblico sbagliato: pochi mesi prima era arrivato Matrix, la storia tra il sci-fi e il distopico in cui un programmatore, sempre da cubicolo, scopre che i suoi sospetti sull’insensatezza del mondo sono più che fondati, sono l’indicatore di una superiorità di comprensione che lo porterà a scegliere di “prendere la pillola rossa”, ossia rifiutare la menzogna del mondo e vedere le cose per come sono davvero. Diventando, da subito, un nuovo Messia. E anche qui, la lettura non poteva essere più sbagliata: le registe, le sorelle Lilly e Lana Wachowski, hanno spiegato alla BBC nel 2020 come il film fosse una metafora della loro esperienza di donne trans.
Torna così il cortocircuito ideologico, l’appropriazione da parte del pubblico maschile di un eroe incompreso che si faccia portavoce delle loro istanze: schiacciati da un parte dalle richieste sociali di omologazione, in un mondo con sempre meno benessere, e dall’altra dalle scelte imposte dal cambiamento del paradigma portato avanti dalle rivendicazioni femministe, molti uomini si sono trovati senza carriera e senza donne. Traslando (rabbiosamente) la “verità delle cose” sulla natura dei rapporti sociali, tra livelli gerarchici e specialmente tra uomo e donna. Attribuendo alla triade LMS look-money-status il solo fattore che determina il successo di un uomo, cosa da cui deriva l’ammirazione per personaggi come Andrew Tate o Elon Musk. Colmo dei colmi, queste persone attribuiscono alle donne una posizione “vincente” in ambito relazionale, e invocano il ritorno a un tempo in cui le stesse erano controllate e sottomesse, in un ruolo “biologicamente predisposto” di prede sessuali della controparte maschile. Questi individui – che spesso online si riconoscono tra loro come risvegliati o “redpillati”, proprio dalla pillola rossa di Matrix – non tollerano quindi alcuna rivendicazione di parità di genere e di rispetto reciproco, e fanno della minaccia sessuale e di morte la propria interazione online con le donne. Offline, si passa direttamente a stalking, molestie e femminicidi.
Lo status come indicatore di disagio: dai film alla realtà
C’è quindi un continuo fraintendimento, che coinvolge molti dei film di “denuncia” usciti tra il ’99 e il 2000. Patrick Bateman in American Psycho è un altro esempio di anti-eroe ammonitorio, frainteso come mito: “C’è un’idea di Patrick Bateman. Una sorta di astrazione. Ma non c’è vero me. Solo un’entità. Qualcosa di illusorio”, dice con tono dissociato il protagonista, che divide la sua vita tra soffocante difesa del proprio status – celebre la scena della competizione sulla qualità dei biglietti da visita con gli altri manager dell’azienda – e la discesa in una violenza delirante. Incuranti della lezione, i giovani uomini di TikTok l’hanno elevato ad aspirazione personale sul modello del “sigma grindset”, il nuovo maschio alfa che fa soldi e “vince alla vita”. L’apoteosi della mascolinità tossica, quindi, nonostante il taglio di vibrante denuncia della regista Mary Harron.
E ancora, sempre nel ’99, abbiamo Il talento di Mr Ripley, la storia di un “fallito” che per ottenere lo status è disposto a ingannare e uccidere una persona dietro l’altra; American History X, una panoramica cruda su razzismo e neo-nazismo negli Stati Uniti (e sulla fragilità psicologica dei due fratelli Derek e Danny); American Beauty, dove la perdita di controllo si frammenta, tornando ancora una volta sul tema dell’omosessualità, della paura di sé e degli altri in un mondo che vuole gli uomini rigorosamente “normali”. Tutti film che, a diverso titolo, hanno generato a loro insaputa dei moderni eroi tossici.
Le donne, il disagio e la lotta nei film del ’99
E nel frattempo dove sono le donne, cosa fanno? A parità di disagio, le donne soccombono, e non solo come inevitabili vittime di film maschili come American Psycho. Nello stesso ’99 escono il film d’esordio di Sofia Coppola ll giardino delle vergini suicide sulle interminabili tragedie delle sorelle Lisbon; e Ragazze Interrotte, con i dolori e le incomprensioni subiti da Winona Ryder, Angelina Jolie e Brittany Murphy prima e dopo l’arrivo alla clinica psichiatrica Claymoore. Strattonate e compresse, le donne sono dalla parte sbagliata del manico anche a parità di sofferenza psicologica e incessante pressione sociale.
Eppure, guardandosi intorno oggi, le donne cos’hanno fatto? Hanno continuato a lottare per riprendersi ogni centimetro. Comprendendo forse davvero quella lezione che Brad Pitt suggerisce in Fight Club: “Solo dopo aver perso tutto siamo liberi di fare qualsiasi cosa”.
Giulia Giaume
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