Il regista Viggo Mortensen e il suo western femminista alla Festa del Cinema di Roma 2024
Dopo l'esordio nel 2020 di “Falling – Storia di un padre”, l'attore e regista americano porta nella rassegna cinematografica della Capitale un film che rilegge l'immaginario western, dando particolare attenzione alla sfera femminile
In tempi in cui i cambiamenti si verificano su più fronti, mettere mano alla materia del western, il genere che più di altri ha forgiato un immaginario maschile lontano dallo spirito del tempo, sembra più una necessità che un desiderio. Una sfida che la Festa del Cinema di Roma non raccoglie per la prima volta con la presentazione dell’opera seconda di Viggo Mortensen The Dead Don’t Hurt/ I morti non soffrono, avendo già dato spazio a precedenti riletture femministe. Non è propriamente questa la strada imboccata dall’acclamato attore americano che sembra vertere su un piano più eastwoodiano. Non solo, l’attore sarà protagonista della serata del 18 ottobre 2024 con il conferimento il Premo alla carriera in Sala Petrassi all’Auditorium di Roma.
Il film The Dead Don’t Hurt di Viggo Mortensen alla Festa del Cinema di Roma 2024
L’emancipazione femminile è sicuramente un tema centrale, anche se forse non quello più interessante, dopo anni di sperimentazione su nuove storie e personaggi. Anche da parte di Hollywood. Il film, che non presenta una scansione lineare del tempo – apparendo un po’ gratuita –, ripercorre la storia d’amore di un immigrato danese, che si fa chiamare Olsen (Viggo Mortensen), e una donna franco-canadese di nome Vivienne (Vicky Krieps). La cui atipicità caratteriale, per i tempi e per il contesto, viene introdotta dalla scena dell’infanzia, in cui conversa con la madre della figura di Giovanna d’Arco. In poche parole, una donna che combatte, ma con delle ragioni differenti rispetto a quelle degli uomini.
The dead don’t hurt: i personaggi
Olsen e Vivienne si incontrano al mercato, dopo il rifiuto esuberante, da parte di lei, delle avances di un ricco irlandese. Bastano infatti poche scene per inquadrare i personaggi, lui un uomo mite e gentile, lei una donna forte e indipendente. Tutt’intorno un mondo (western) che pare non essere mutato. Corrotto e popolato da uomini violenti e disposti a tutto per prendersi ciò che “gli spetta di diritto”: dalle terre, ai soldi, alle donne.
The dead don’t hurt e l’emancipazione femminile
Vivienne è una donna che non si vuole sposare, nonostante ciò si trasferisce con Olsen in luogo polveroso e roccioso, che lei riuscirà ad abbellire con piante e fiori. Fino a quando non viene abbandonata da lui che, uomo dai saldi principi morali, parte per diversi anni per combattere la guerra di secessione e la schiavitù. Comincia in questo modo la trasformazione del personaggio femminile, attraverso il lavoro nel saloon e una violenza subita. Lo stupro è ancora una volta il trauma con cui nel cinema il corpo femminile si misura. Weston, figlio rabbioso e arrogante, dell’ambiguo proprietario terriero Jeffries, invaghitosi di Vivienne, la fa sua con la forza, non senza conseguenze. Uno sfregio in viso e un figlio che non riconoscerà mai. E che al ritorno di Olsen, è lui ad adottare, anche dopo la morte della madre per colpa della sifilide. È in realtà una strage perpetrata dallo stesso Weston ma ordita dall’avido padre, l’incidente scatenante che porta scompiglio in quell’angolo remoto del West, facendo emergere contraddizioni e soprusi. Mortesen, autore anche della sceneggiatura, ci suggerisce quindi una rilettura della mitologia della frontiera, concentrandosi sulla vita di due immigrati. Due estranei e stranieri rispetto a quel contesto. Purtroppo però i tempi sono troppo dilatati e le idee non particolarmente innovative. E se è vero che non è disposto a cedere ai cliché di genere, non riesce a dare lo spessore psicologico necessario ai suoi personaggi per sostenere la sua critica.
Carlotta Petracci
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati