Un horror che è anche un film d’arte. Ecco perché The substance ha bucato lo schermo
Che cosa ha in comune un film horror con il femminismo? E con l’arte contemporanea? Il film The Substance di Coralie Fargeat lo spiega
È lecito per un maschio (per di più boomer) affrontare un’opera oggetto di un serrato dibattito tutto al femminile? Da Le monde al New York Times i commenti sulla pellicola premiata a Cannes e poi presentata a Roma si sprecano. Nelle righe che seguono non c’è alcuna volontà di affrontare i temi proposti in modo acrobatico da tre donne appartenenti a tre generazioni diverse: la regista francese Coralie Fargeat (48 anni), l’attrice e produttrice americana Demi Moore (61 anni) e l‘attrice e modella americana Margaret Qualley (31 anni).
Il film The Substance
The Substance è in ogni caso un’esperienza visiva potentissima costruita con una esibita logica citazionista e per questo si presta a considerazioni che vanno oltre il recinto delle classificazioni di genere. The Substance è un luna park dove lo spettatore si perde tra riferimenti visivi che sono il frutto dell’ottima regia di Corline Frageat e della “follia” del production designer Stanislas Reydellet che hanno riempito lo schermo di pavimenti moquettati dalla colorazione satura, piastrellature grafiche e una Beverly Hills fatta di esterni plastificati.
The Substance è un art movie
Quel che mi accingo a fare qui è provare a leggere questa pellicola come un art movie alla maniera di Kubrick o Lynch, di Cronenberg o Tarantino. I riferimenti sono così diretti da innescare nel cervello dello spettatore une tempesta di associazioni. Provo a pescarne alcune, gioco facile e lo faccio partendo dalla fine della pellicola. Un troncone gelatinoso staccatosi dal corpo in mille pezzi della protagonista striscia tra sforzi estremi sino a posizionarsi sulla stella a lei dedicata sulla walk of fame. Su questa immagine la regista si sofferma lungamente e non ci sono dubbi che si tratti della raffigurazione di una Medusa, non in particolare quella di Caravaggio perché il ricordo corre alla Testa di medusa dipinta da Rubens nel 1618. Che ci fa un quadro del XVII secolo in un film di violenta impostazione Pop? The substance è un’opera di fantasia e non un docu film, ma le palme che costeggiano i pochi esterni presenti sono quelle di John Baldessari. I denti bianchissimi contornati da rossetti esplosivi per i più ammalianti sorrisi femminili sono una citazione della serie Mouths sviluppata da Tom Wesselmann negli Anni Sessanta.
La walk of fame di The Substance
Così come la reiterazione sullo smalto per le unghie ci collega ai Bed room paintinsg, e le ripetute scene di nudo sotto la doccia piastrellata ai Bath tube nude dell’artista di Cincinnati: cos’ come accade per l’esaltazione di junk food ai suoi numerosi Still life. La confezione visiva di The Substance è certamente pop, ma qui non si fa della filologia. Un’aspirapolvere con l’occhio illuminato viene spinto sino a occupare un primo piano senza alcuna apparente ragione? Non è insensato pensare che sia una citazione della serie di “sculture” esposte da Jeff Koons al New Museum di New York dove aspirapolveri commerciali e lucidatrici per pavimenti furono messi in vetrina come al supermercato: oggetti da contemplare per la loro bellezza, nuovi per sempre in quanto destinati a non essere mai usati. Un perfetto riflesso dell’azione svolta dalla protagonista che in The Substance avvia un processo di mutazione biologica per non invecchiare davanti alle telecamere della sua trasmissione di aerobica. Un lungo primo piano è dedicato anche a una mosca che muore affogata in un calice di chardonnay durante la conversazione con cui la protagonista viene liquidata dal suo orribile impresario (Dennis Quaid): l’insetto nero e lucente riporta alle camere della morte escogitate dal Damien Hirst di Tears for Everybody’s Looking at You e Waiting for Inspiration del 1994 oggi conservate nella Torre di Fondazione Prada.
L’immaginario pop di The Substance
Se l’immaginario pop è quello scelto sin dalle prime scene del film, nel finale il film vira vero il più classico il Grand Guignol in particolare per le ripetute inquadrature su visi coperti di sangue che urlano a bocca spalancata. Non si scappa: qui il pensiero va a l’Urlo che Edvard Munch ha pastellato su cartone nel 1893. Per contrasto le fattezze della protagonista ormai ridotta a un ammasso di carne asimmetrica incrociano i ritratti di Francis Bacon. Nel compiersi del loro disgraziato destino le eroine del film si presentano all’unisono con due facce nella stessa testa: eredità di un passato che l’una voleva rinnegare, proiezione verso un futuro mai raggiunto l’altra. Esattamente come accade per il busto di epoca romana conservato ai Musei Vaticani dove Giano il dio bifronte mostra le sue facoltà ottiche. Se The substance vada letto come una pellicola che veicola messaggi sociali e di genere e se in questo sia un’opera riuscita non spetta a me dirlo. Di certo durante il 140 minuti del suo svolgersi un tipo di intrattenimento enigmistico è pure possibile.
Aldo Premoli
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