Dietro le quinte di “Qui non è Hollywood”. L’intervista a Giancarlo Commare
L'attore, astro nascente del cinema italiano, racconta impressioni e sensazioni dal set della serie sul delitto di Avetrana. Ma anche il suo coinvolgimento nel biopic su Pirandello
Da Skam Italia a Maschile singolare, da Nuovo Olimpo a Eterno visionario passando anche dal teatro e dal musical. Giancarlo Commare, classe 1991, è tra i giovani attori più interessanti e carismatici che abbiamo in Italia. E interessante è anche il suo ruolo in Qui non è Hollywood, serie in quattro episodi diretta da Pippo Mezzapesa e basata sul libro Sarah la ragazza di Avetrana (scritto da Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, ed edito da Fandango Libri): il libro, e la serie, sono basati sul caso di cronaca nera dell’agosto 2010 ad Avetrana, in provincia di Taranto, che ha visto vittima la quindicenne Sarah Scazzi.
La serie “Qui non è Hollywood”
Nella serie, che ha debuttato in Italia su Disney+ a fine ottobre e che dall’11 dicembre sarà negli USA su Hulu, Commare interpreta Ivano, il ragazzo che frequentava Sabrina Misseri, cugina della vittima, condannata dalla Cassazione all’ergastolo insieme a Cosima Serrano (a sua volta zia di Scazzi). Abbiamo parlato della serie – anche costretta a cambiare nome dall’originale Avetrana dopo il ricorso del sindaco della città omonima – con Commare, senza dimenticare l’altro grande progetto che lo ha visto coinvolto in questi mesi, e dedicato al grandissimo Luigi Pirandello (Eterno visionario di Michele Placido).
L’intervista all’attore Giancarlo Commare
“Qui non è Hollywood” fa riflettere, tra le tante cose, anche sulla maschera dell’attore, sulla distanza che c’è tra personaggio e interprete…
Assolutamente sì, quella è una maschera. Una maschera che si indossa, si veste e si vive. In questo caso, alcuni hanno definito la serie grottesca, ma non sono proprio d’accordo. Capisco che possa sembrarlo perché alcuni attori sono mascherati da quei personaggi, fatti benissimo tra l’altro, però non sono troppo d’accordo con la definizione.
La serie è stata da subito acclamata. Questo a cosa si deve?
A un prezioso lavoro di squadra. Il costume doveva essere preciso, perfetto, e tutti i reparti qui lo sono stati, perfetti. Non mi era mai capitato prima di questo set. Mi sono persino emozionato nel vedere e nel guardare la truccatrice che ogni mattina mi metteva questi peli sulla faccia facendomi una barba, e ogni volta con estrema precisione e amore verso il suo lavoro. Questa cosa mi ha tanto emozionato. È raro trovare un set dove tante persone amano fare veramente il proprio lavoro e dove tutti hanno un fine comune. Questo è stato un set corale in tutto. Purtroppo ci sono attori che pensano che gli altri lavorano per loro e invece lavorano con loro. Per come la vedo io, se non c’è un lavoro di qualità attorno a me io posso anche dare il massimo ma non sarà mai veramente tale. Tutti lavoriamo, nel nostro piccolo, per fare una cosa grossa, e questa serie lo è stata.
Quando hai accettato il ruolo di Ivano hai pensato alla reazione che avrebbe avuto il pubblico?
Sono sincero, no o almeno non immediatamente. Nel senso che quando mi è stato proposto il ruolo era fine luglio e a fine agosto si iniziava a girare. A un certo punto ho iniziato a pensare a come potevo avvicinarmi a quella storia e l’ho vissuta subito come una grande responsabilità. Era una bella prova da affrontare e forse per me anche necessaria, e quindi mi sono lasciato andare, mi sono lasciato guidare dall’istinto, e ho detto di sì. Poi subito dopo, quando ho iniziato a confrontarmi con altri, quindi a dire che avrei fatto questa cosa, anche in base a quello che mi rispondevano le persone, ho cominciato a pensare a cosa avrebbe potuto pensare il pubblico. Ho capito che sicuramente era una storia delicata da riportare alla luce, però sin dal primo momento, dall’approccio della produzione e del regista, ho capito che era tutto trattato con estremo rispetto e quindi mi sono fidato.
La serie ha due dimensioni: una interna e una esterna. Da un lato c’è il luogo della famiglia, la casa. Dall’altro c’è il fuori, c’è la spettacolarizzazione della cronaca, l’eccessiva curiosità degli altri. Questo tipo di spettacolarizzazione ti spaventa?
Si certo, a chi non spaventerebbe… Lo spettacolo lo concepisco a teatro, nella sua forma artistica e non nella vita delle persone, quella vera, e soprattutto se si parla di una situazione tragica come questa. L’invasione di campo è veramente poco rispettosa, anche nei confronti di chi non c’è più. A volte si va oltre e si dimentica proprio chi non c’è più, si pensa solo a spettacolarizzare tutto per fare audience. Io non lo trovo giusto e non lo condivido, ed è anche un po’ la ragione per cui ho accettato di fare la serie. Perché ho capito che questo sarebbe stato uno dei temi fondamentali.
A livello visivo colpisce molto la fotografia. I colori giallo, blu, grigio.
C’è stato un grande lavoro da parte della fotografia. La serie inizia in maniera molto colorata e man mano che entriamo sempre di più dentro questa casa arriviamo all’ultimo episodio in cui è proprio cupa, grigia, che è un’altra dimensione ancora più profonda e terrificante.
Sul set della serie “Questa non è Hollywood”
Durante le riprese quale è stato il pensiero che ti ha accompagnato?
Ti racconto questo episodio. Appena arrivato in hotel ho incontrato Giulia Perulli, ci siamo seduti nella hall e con la sceneggiatura in mano abbiamo iniziato subito a provare. Si trattava di una delle scene in cui Ivano e Sabrina litigano, e la gente intorno ci guardava male talmente eravamo presi da quel dialogo. Questo per dire quanto è stato importante per noi rispettare tutta la storia, tutta la vicenda e tutte le parti. Non volevamo sbagliare, e non per paura di performare male, ma per quello che rappresentava e rappresenta questa cosa per noi.
È stato un set con molta tensione emotiva.
Ci sentivamo una responsabilità grossa sulle spalle. L’unico modo per sciogliere la tensione era quella di fare di più. Più noi ci mettevamo in gioco, più potevamo riuscire a dare la giusta dignità al progetto. Questo ci ha permesso da un lato di essere super concentrati ma anche di smorzare fuori dal set, di fare gruppo, stare insieme e anche divertirci.
Giancarlo Commare in “Eterno Visionario”
Cambiando argomento, in Eterno visionario di Placido sei uno dei figli di Pirandello. Cosa rappresentano per te, siciliano d’origine, i testi di questo grande autore?
Sfondi una porta perché di autori a scuola ne abbiamo studiati tantissimi e difficilmente tra i banchi ti innamori di alcuni di loro. Con Pirandello è stato diverso. Da subito mi ha colpito, mi è entrato dentro e in più di un’occasione mi ha accompagnato, oltre che ispirato. Una volta finita l’Accademia infatti ho iniziato a scrivere qualcosa prendendo spunto da Uno, nessuno e centomila e ne ho fatto una regia che ho portato a teatro con una compagnia che avevamo creato tra compagni… Insomma, Pirandello è uno dei miei guru. Le sue opere sono lui, lo rappresentano, è la sua vita ma è anche la nostra: tutti in qualche modo ci poniamo le domande che si è posto Pirandello, e siamo chiamati a fare i conti con dei fantasmi.
E con Michele Placido come è andata?
Il lavoro è iniziato tanto prima delle riprese, nella preparazione dei costumi, nella ricerca. Siamo andati diverse volte a fare le prove costumi, a fare delle foto, e Michele era sempre lì. Era anche un’occasione per parlare del film, del racconto di Pirandello, per prendere appunti. Quindi, quando siamo arrivati sul set, sapevamo cosa dire e fare, anche se la cosa bella è stata sorprendersi continuamente del lavoro che poi Michele ha condotto, come azzardare, improvvisare, tirare fuori cose nuove al momento.
Balli, canti, recitati, ti piacciono la fotografia, la regia, la musica, la scultura… In cosa ti senti veramente a tuo agio?
Nell’arte in generale. Mi piacerebbe poter condensare tutto in un’unica cosa ma non riesco. Io non mi sento un attore e basta. Certo, oggi quello che mi fa guadagnare è la professione dell’attore, ma magari un domani potrà essere anche altro. Non mi importa pormi dei limiti. Spesso e volentieri siamo incasellati troppo in alcune cose perché abituati e perdiamo di vista la possibilità di essere tante altre cose. Come dice anche Pirandello appunto “uno, nessuno e centomila”, questa è la mia profonda aspirazione.
Andy Warhol diceva che “un artista è qualcuno che produce cose di cui le persone non sanno di avere bisogno”.
L’arte in realtà è qualcosa di cui tutti hanno bisogno ma a volte ce lo dimentichiamo. E delle volte è troppo elitaria, quando dovrebbe invece essere a portata di tutti.
Margherita Bordino
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